di Raffaello Pannacci
Nuto Revelli, già ufficiale subalterno degli alpini al fronte russo, così scrive circa il proprio periodo di permanenza nelle retrovie, presso le quali si trovava dopo essere stato ferito in combattimento:
«Nell’ospedale di riserva N.3 [di Rykovo] erano ricoverati alcuni ufficiali della divisione Sforzesca. Era consuetudine non salutare [militarmente] gli ufficiali della “Čikaj”, nemmeno gli ufficiali superiori. La Sforzesca – si diceva – ha buttato le armi, è scappata senza combattere. La verità è che la Sforzesca venne sorpresa dai russi, sul Don, mentre noi [alpini] marciavamo verso il Caucaso. Da tempo, in quel tratto di linea, tutto era fermo, immobile. I russi fingevano di sonnecchiare, i nostri sonnecchiavano. È vero che, in linea, qualche ufficiale dormiva in pigiama. È vero che qualche ufficiale arrivò nelle retrovie in pigiama. Ma non mancarono gli atti di sacrificio, di coraggio»[1].
Revelli si riferisce ad un episodio noto a chiunque abbia buona dimestichezza con la memorialistica relativa alla campagna di Russia, vale a dire la condotta della Divisione di fanteria Sforzesca durante la cosiddetta «prima battaglia difensiva del Don», che le guadagnò l’appellativo di «divisione čikaj» (fuggi, in russo). Com’è noto, il 20 agosto 1942 l’Armata rossa attaccava le linee italiane a cominciare proprio dal settore tenuto dalla Sforzesca sul Don, approssimativamente fra i paesi di Jelanskoe e Simovskij. I due reggimenti di fanteria della divisione, il 53° e soprattutto il 54°, ebbero dei cedimenti temporanei, il che permise ai sovietici di sfondare e di guadagnare terreno. Nel tentativo di supportare le truppe della Sforzesca, in quei giorni il Comando del XXXV Corpo d’armata, da cui la divisione dipendeva, mandò nel relativo settore una serie di unità di supporto, fra cui reparti di camicie nere, diverse unità di cavalleria, una compagnia chimica, un battaglione di guastatori e soprattutto i bersaglieri della Divisione Celere, che giunsero sul posto il 23 agosto.
La situazione generale permase critica fino al 25 agosto incluso, quando il comandante del XXXV Corpo d’armata generale Giovanni Messe, al fine di ricostituire una linea di difesa continua e meglio difendibile, ordinò l’arretramento delle unità sul settore della Divisione Sforzesca. Tale decisione provocò l’intervento del Comando del Gruppo d’armate B tedesco, da cui l’8ª Armata italiana dipendeva, che lo giudicò sbrigativamente un ripiegamento arbitrario, come spiega la relazione dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito sulle operazioni italiane in Russia[2]. Il Comando del Gruppo d’Armate B, in sostanza, ritenne che i reparti della Divisione Sforzesca avessero ceduto di fronte alla pressione nemica e si fossero ritirati di propria iniziativa. Fu quindi dato ordine al XVII Corpo d’armata tedesco di assumere il comando diretto della Sforzesca e del suo settore e di «fermare a tutti i costi i movimenti di ripiegamento della Divisione»[3]. Messe ritenne lesiva dell’onore delle armi italiane la condotta del Comando del Gruppo d’Armate B e fece appello al comandante dell’8ª Armata Italo Gariboldi, che tuttavia non aprì un «caso», preferendo non creare ulteriori attriti fra alleati nell’ambito di una situazione già tesa («ora importa vincere», gli replicò Gariboldi). L’episodio causò gravi screzi fra il Comando dell’8ª Armata italiana e quello del XXXV Corpo d’armata, da cui la Divisione Sforzesca dipendeva, appunto. Messe si risentì profondamente nei confronti del suo diretto superiore, col quale i rapporti erano già scadenti, e ciò pose le basi per la sua richiesta di essere sostituito, di poco successiva (arrivò una prima volta già il 31 agosto)[4].
Disegno 27 a fondo volume in Costantino De Franceschi, Giorgio de Vecchi e Fabio Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma 1993 (1ª edizione 1977)
Nel dopoguerra Messe si riferì alla condotta dei comandi germanici in questa circostanza parlando del loro «evidente […] intendimento di togliere di mano ai generali italiani la direzione della battaglia difensiva nell’orgogliosa quanto sciocca presunzione che bastessero il cipiglio e l’arte incomparabile di un generale tedesco a “fermare” i ripiegamenti delle nostre divisioni». Secondo lui non esistevano motivi per ipotizzare alcun «cedimento spirituale» dei soldati della Divisione Sforzesca, che si sarebbero ben portati, reggendo all’urto nemico e arretrando solo per un motivato ordine superiore[5]. Gariboldi, per contro, poco tempo dopo la battaglia fece sapere a Messe che era «necessario ora esaminare la condotta della divisione Sforzesca nel suo ripiegamento dal Don alla sue attuali posizioni per sincerarsi della condotta di reparti, comandi e comandanti», per cui ordinò allo stesso Messe di rendergli note le sue «indagini» in tal senso, dalle quali doveva emergere il suo «giudizio sul comportamento dei comandanti fino a quelli di battaglione»[6]. Uno dei biografi di Messe – nonché suo agiografo – ha definito tale richiesta di Gariboldi «un’ottusità degna di un burocrate puntiglioso e punitivo»[7]. All’epoca, tuttavia, il già comandante del Csir Messe dovette avere la netta sensazione che la condotta della Divisione Sforzesca fosse stata tutt’altro che adeguata al contesto. Nei giorni immediatamente seguenti la battaglia, infatti, divennero chiari alcuni elementi di giudizio.
In primo luogo, alcune unità della Sforzesca risultarono aver ripiegato abbandonando sul terreno un numero di armi individuali e di reparto «tale da rendere nulla la residuale efficienza bellica del reparto stesso e impossibile la sostituzione da parte dell’Intendenza» (che non aveva «disponibilità sufficiente» e che nemmeno l’avrebbe avuta in seguito)[8]. I dispersi del solo 54° Reggimento fanteria, nei giorni fra il 20 e il 31 agosto 1942, furono rapidamente calcolati in 787 soldati e 35 ufficiali, dei quali un centinaio presumibilmente morti e circa 150 probabilmente sgomberati come feriti senza passare dalla Sezione di sanità della divisione (che li avrebbe invece registrati)[9]. Questo quadro è confermato dai dati sull’attività dei carabinieri reali al seguito delle truppe italiane. Sin dal 20-21 agosto i carabinieri ebbero il compito di pattugliare le vie provenienti dal fronte tenuto dai Reggimenti fanteria 53° e 54° della divisione Sforzesca, al fine di evitare e/o di prevenire sbandamenti. Dopo la momentanea rottura del fronte, poi, essi si occuparono di riunire, di riordinare e di ricondurre in linea gli sbandati[10]. Già prima della fine di agosto i carabinieri del XXXV Corpo d’armata comunicarono al Comando del Corpo d’armata un elenco di 23 militari – fra cui 5 ufficiali – transitati per la sede del Comando dei carabinieri stesso in seguito agli eventi del 20-25 agosto e risultanti dispersi, sbandati o catturati[11]. Qualche giorno dopo fu lo stesso Messe a trasmettere tale lista al Comando della Divisione Sforzesca per gli accertamenti del caso[12].
Le camicie nere, al pari dei carabinieri, non furono mandate sul posto solo come rinforzo, ma vennero utilizzate pure per raccogliere gli sbandati della divisione e per riportarli sul luogo del combattimento a viva forza. Il mattino del 22 agosto, su automezzi delle camicie nere, partì da Bolšoj una colonna di circa 300 uomini diretta a Čebotarevskij, composta in larga maggioranza di elementi «racimolati fra sbandati e conducenti». La colonna, i cui effettivi avevano con sé solo l’armamento individuale, era «inquadrata da qualche ufficiale» e «accompagnata da ufficiali della Mvsn»[13] (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale). Messe, inoltre, constatò che presso le basi arretrate della Sforzesca vi erano 27 ufficiali e 1.197 elementi di truppa, al che ordinò immediatamente di ridurre il numero del relativo personale a favore dei reparti in linea[14]. Provvedimenti simili erano volti a ovviare alla «deficienza numerica di ufficiali presso i reggimenti» e alla contemporanea (non casuale) «esuberanza di ufficiali presso i reparti divisionali». In seguito ad essi «le retrovie si sfolla[ro]no discretamente» e si mise un freno al fenomeno dei «molti […] divenuti conducenti o personale di governo per evitare i rischi della linea»[15]. Il fenomeno dell’«imboscamento» è ben fotografato nella descrizione dei combattimenti del 22 agosto fatta da un alto ufficiale del 54° Reggimento fanteria:
«Alle ore 14 circa il nemico investe furiosamente col suo fuoco il nostro schieramento […]. Alcuni reparti maggiormente presi di mira hanno un momento di indecisione; il loro fuoco diminuisce d’intensità, la reazione ci sembra fiacca e non rispondente al momento critico. Attorno alla “Villa Ombrosa” c’è molto movimento di uomini e di macchine, un andirivieni insolito […]. Tutta la valle è animata da un movimento insolito di uomini armati. Ci portiamo immediatamente al ponte per constatare “de visu” e prendere immediati provvedimenti. La sorpresa è grande! Fra la vegetazione del fondo-valle scorgiamo elementi dei reparti che vanno in cerca… d’acqua… […]. Qualche attimo… e sui nostri capi sentiamo il sibilo di alcune pallottole… ci hanno sparato alle spalle… ormai non abbiamo più dubbi… il nostro scoramento è immenso… Ordiniamo ai graduati di ricondurre in linea quelli che si attardano lungo il fiume e ai medici di rimandare subito in linea i porta-feriti improvvisati ed infine al[la] Batt.[eria] “Della Via” di sparare a zero sui reparti che ripiegano… decisione dolorosa, ma ben necessaria per evitare guai maggiori! Alcune raffiche di mitragliatrice fanno ritornare il senno ai malintenzionati ed ancora qualche colpo di pistola in aria, sparato a bruciapelo verso qualche recalcitrante, ottiene l’effetto desiderato. Il coraggio ed il sacrificio dei più annulla la defezione dei pochi ed il nemico, benché superiore di mezzi ed uomini, non supera le nostre linee»[16].
Numerosi elementi di riflessione ci giungono dagli scritti prodotti dai soldati che vissero da vicino quei fatti. Le lettere di Gaetano Cozzi, caporale del 53° Reggimento fanteria, rendono un’idea del caos originatosi fra le file della Divisione Sforzesca dopo l’attacco sovietico. Cozzi scriveva a casa che un’aliquota del suo battaglione (il III) era confluita nel settore del 54° Reggimento, dove i soldati erano giunti senza armi e senza equipaggiamento, rimanendovi per diversi giorni in attesa di essere reindirizzati al reggimento d’appartenenza (nel frattempo decimato). Il caporale parlò di sfascio totale dei reparti del 53° Reggimento fanteria dopo l’attacco sovietico del 20 agosto, anche a causa dell’alta percentuale di giovani inesperti fra le file della Sforzesca (appena giunta al fronte russo), molti dei quali «mai avevano affrontato un combattimento in grande stile»[17]. Un sergente maggiore del 6° Reggimento bersaglieri si riferì alla grande unità definendola nel proprio diario «quella maledetta divisione Sforzesca» e spiegando come mai avesse meritato un simile appellativo:
«La divisione “Sforzesca”, che era andata ad occupare tutte le posizioni da noi conquistate, in duri e sanguinosissimi combattimenti alla sinistra di Serafimowich, dopo pochissimi giorni, di fronte ad un attacco russo, attacco svoltosi di notte, si sono [sic] lasciati sorprendere e, presi dal panico, l’intera divisione è fuggita, abbandonando in mano nemica tutte le posizioni. Armi, uomini, feriti e caduti (erano al loro primo combattimento, ma ciò non giustifica il grave errore commesso). Tale stato di cose, se non fossimo stati Italiani, avrebbe comportato la fucilazione di parecchi, specie nei ranghi dei comandanti. Noi ora siamo qui per riconquistare le posizioni, riccaciare il nemico al di là di esse e poi ridarle nuovamente alla Sforzesca»[18].
Analogamente un soldato di un’infermeria per quadrupedi così scrisse a casa, in una lettera intercettata dalla censura: «I nostri sul Don hanno retrocesso di parecchi chilometri, è tutta colpa della divisione “Sforzesca” che appena i soldati ed ufficiali hanno visto i russi arrivare sono fuggiti via tutti ed erano quasi tutti in mutande, dormivano tutti svestiti in prima linea»[19]. Il particolare dei soldati in pigiama o in mutande – difficile da accertare – dovette avere ampia circolazione fra la truppa, poiché torna in più scritti coevi alla guerra o post-bellici: «Si diceva che alcuni ufficiali fossero stati ritrovati a Millerovo, a trenta chilometri dalle postazioni, ancora in pigiama»[20]. Come spiega un’ex camicia nera, «la voce di questi e di altri incidenti del genere, i quali, a dir poco, rivelavano una leggerezza criminale da parte dei comandi, naturalmente correva con grande rapidità da un capo all’altro della linea, con quale effetto sul morale delle truppe non è difficile immaginare»[21].
I difficili momenti vissuti dalla Divisione Sforzesca sul Don fra il 20 e il 25 agosto sono vividamente descritti nei diari di ufficiali, sottufficiali e cavalieri del Reggimento Savoia cavalleria, dove si legge di scene di panico generale, di disfacimento dei reparti della divisione (presso Čebotarevskij), di sfascio e di cedimento di unita nuove al fronte ma già provate dalla lunga marcia che le aveva portate in linea, di gravi casi di emotività, di isteria, di sbandamento e di cedimento di schianto da parte del II battaglione del 54º Reggimento fanteria[22]. Un guastatore giunto in zona col proprio reparto il 20 agosto ricorda: «Ogni tanto mitraglie abbandonate nei campi e pochi sbandati pieni di paura»[23]. Altrettanto nitidi sono i ricordi dei membri delle unità addette ai trasporti, che si trovarono a transitare per il settore della Sforzesca, a volte per portare sul posto le unità di rincalzo, altre volte appositamente per riportare in linea i fuggiaschi della divisione stessa. Racconta un tenente:
«Gli alpini che trasportavamo non fecero in tempo a scendere dai camion che ebbero l’ordine di piazzare le mitragliatrici e di iniziare il combattimento: era il 28 agosto 1942. Eravamo nel settore tenuto dalla divisione “Sforzesca”, che era entrata in linea da pochissimo tempo, e in una notte i russi l’avevano travolta causando un finimondo. Gli ufficiali che comandavano i vari reparti non erano pratici della guerra né psicologicamente né militarmente; si sparse la voce che, addirittura, fossero scappati in pigiama. I bersaglieri, che erano stati sostituiti dalla “Sforzesca”, dovettero andare di corsa a tamponare la falla apertasi nello schieramento italiano, lasciando sul terreno molti uomini»[24].
Più sbrigativamente, un caporale autiere scrive: «I battaglioni della Divisione “Sforzesca” andammo a prenderli noi quando scapparono, perché questi qui scapparono proprio; andammo a recuperarli a 15-20 km di distanza per riportarli al fronte»[25]. Sull’episodio in oggetto si dispone pure di testimonianze provenienti dal fronte opposto. Un soldato sovietico dell’839° Reggimento fucilieri (parte della 63ª Armata, che fronteggiava gli italiani), catturato e interrogato fra il 25 e il 26 agosto, affermò che la sua sola compagnia aveva fatto nei giorni precedenti «oltre 100 prigionieri italiani tra cui molti sottufficiali»[26]. Il tenente dell’Armata rossa Aleksandr Ivanovič Kostenko, catturato sul fronte del XXXV Corpo d’armata, annotò nel diario in data 25 agosto che il nemico aveva «preso a scappare in preda al panico lasciando macchine e armi nelle nostre mani»[27]. Episodi simili – spiega un reduce – contribuirono a far sì che la Sforzesca venisse ribattezzata dai sovietici «la Divisione cicai (scappa)»[28].
Le vicende della Sforzesca durante la «prima battaglia difensiva del Don» ebbero anche ripercussioni a medio e a lungo termine, sia al fronte che in patria. Un mese dopo gli episodi di cui sopra un capitano del 17° Reggimento artiglieria (appartenente alla divisione) scrisse una risentita lettera alla direzione della rivista «Fronte russo», uno dei fogli di trincea dell’8ª Armata italiana. L’ufficiale si lamentò del fatto che la rivista avesse del tutto trascurato le «fatidiche giornate che vanno dal 20 al 27 agosto», omettendo di dire che la Sforzesca in quei giorni aveva «combatutto leoninamente»[29]. L’appunto aveva un fondo di verità e ne fu chiesto conto al capo del Nucleo corrispondenti di guerra dell’8ª Armata italiana, il capitano del Regio Esercito Saverio Grana (funzionario del Ministero della Cultura popolare). Questi spiegò al direttore generale per il Servizio della stampa italiana che i giornalisti al fronte russo avevano avuto dal generale Messe e da un colonnello alle sue dipendenze un’illustrazione degli avvenimenti al fronte in quei giorni da inserire nei loro articoli. Poi, però, una volta terminato l’inquadramento generale della battaglia, voluto dallo stesso Messe, essi «si videro tagliata completamente tutta la parte che riguardava la “Sforzesca”»[30]. La censura sulla divisione, cioè, sarebbe stata «fatta a monte», poiché «il comando di Gariboldi [aveva] interesse che se ne parl[asse] il meno e il più tardi possibile, sia per farne sapere poco alle autorità romane, sia per gli effetti che una pubblicità positiva [avrebbe potuto] avere, al fronte, su chi conosce[va] la verità»[31].
Frattanto il capo del Nucleo corrispondenti Grana parlò anche col comandante della Sforzesca e col suo capo di stato maggiore, i quali pure si lamentavano del silenzio sui giornali circa la loro grande unità. Scriveva Grana:
«Secondo il buon uso dei militari e dei galantuomini, dissi loro nuda e cruda la verità, che del resto era volgarmente nota anche a loro: che cioè anche in queste retrovie (io allora mi trovavo a Stalino) erano corse voci disastrose sul comportamento della “Sforzesca” in quella battaglia: si era parlato di cedimento, sbandamento, decimazione: certamente nient’altro che un colpo di sfortuna per la povera Divisione – anche se le voci eran vere, mentre erano esageratissime – giacché anche la “Sforzesca” è formata di soldati italiani, che hanno compiuto su ogni fronte veri prodigi di valore e di resistenza; ma si sa che i colpi di [s]fortuna, per quanto ingiusti, una volta ricevuti, non è facile cancellarli; e a ogni modo, sempre, la migliore medicina è il tempo».
Grana, poi, espose ai propri corrispondenti «questa necessità di riabilitare – diciamo pure la parola – la “Sforzesca” con qualche articolo, sia pure di episodi retrospettivi». Tuttavia, prima la partenza della divisione per un nuovo tratto di fronte e poi il peggioramento delle condizioni climatiche resero questo compito impossibile[32].
Da ultimo, ripercussioni delle vicende della Sforzesca si ebbero anche al rientro delle truppe dal fronte russo. Nel marzo 1943 il consigliere nazionale del Partito fascista Ezio Maria Gray, allora vicepresidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, indirizzò allo Stato maggiore del Regio Esercito un preoccupato ed esplicito appunto, che mostra ulteriormente come una parte dei quadri comando lasciasse a desiderare in generale, non solo in fatto di capacità militari sul campo:
«Ho trovato in questi giorni la situazione della mia città di Novara seriamente appesantita per questo fatto. Come è noto la Divisione “Sforzesca” (sede di Novara) non ha avuto in Russia vicende liete; un appellativo antipatico appioppatole lassù riassume le vicende stesse. Esse non apparvero inattese a chi prima che la Divisione partisse verso quel fronte giudicava insufficiente il suo Comando e notò lo spirito dimesso col quale partiva il complesso del Comando stesso. Ma ora a Novara ha fatto grave impressione il fatto che, mentre un importante contingente di ufficiali e di truppa manca all’appello senza che per la più parte si sia nemmeno potuto darne notizie precise, il generale comandante la divisione e i suoi ufficiali sono tornati con non simpatico anticipo sulla massa divisionale. La causale della “malattia” non persuade e qualche congiunto di colonnelli scomparsi a quel fronte (colonnelli appartenenti alla “Sforzesca”) non ha esitato a commentare aspramente tale fatto né si è potuto umanamente contrastare tali espressioni di ribelle angoscia. Ora poiché reduci isolati e lettere di lassù segnalano un umore della massa non molto ortodosso, sarebbe forse raccomandabile evitare il ritorno collettivo della “Sforzesca” a Novara; ciò potrebbe portare ad una pericolosa diffusione di spirito depressivo e disfattista nella popolazione di città e provincia»[33].
Circa tre mesi dopo questo appunto, il corrispondente di guerra Ettore Doglio, già presente al fronte russo durante le vicende della Sforzesca nella «prima battaglia difensiva del Don», avrebbe scritto un articolo retrospettivo sull’intero ciclo operativo della divisione. Iniziando la propria analisi dall’estate 1942, il giornalista sentì il bisogno di apporre qualche correttivo al modo in cui si era parlato della Sforzesca dopo i suoi primi scontri in terra sovietica: «In quel momento […] corsero voci infondate ed inesatte sullo svolgimento della battaglia»[34]. Un tentativo di «riabilitazione», dunque, non mancò, ma era decisamente troppo poco e troppo tardi per far mutare opinione ai soldati che avevano combattutto in Russia, i quali, sia allora che in seguito, si riferirono ai fanti della Sforzesca con epiteti di scherno o assumendoli ad esempio negativo. Enrico Betti, membro del 120° Reggimento artiglieria, ha così spiegato in un’intervista di qualche anno fa:
«Quando incontravamo qualcuno, se gli domandavamo di quale divisione fosse e ci rispondeva che era della Sforzesca, non mancavamo di dargli l’appellativo di “cicai”. E soprattutto non mancavamo di rinfacciargli che si erano fatti prendere dai russi, era un modo cameratesco di rivolgerci ai nostri compagni di guerra con i quali si creava una sana rivalità»[35].
[1] Nuto Revelli, Mai tardi. Diario di un alpino in Russia, Einaudi, Torino 2001 (1ª edizione 1946), p. 65.
[2] Costantino De Franceschi, Giorgio de Vecchi e Fabio Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma 1993 (1a edizione 1977), pp. 250-275.
[3] Ivi, p. 274 e Documento 80, p. 668.
[4] Luigi Emilio Longo (a cura di), Giovanni Messe: l’ultimo maresciallo d’Italia, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma 2006, pp. 169-186.
[5] Giovanni Messe, La guerra al fronte russo. Il Csir, Mursia, Milano 2005 (1ª edizione 1947), pp. 259-261.
[6] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (Aussme), M/3 (versamento 1998), busta 3, fascicolo non numerato: Contegno divisione Sforzesca, Gariboldi a Messe, 28 settembre 1942.
[7] L. E. Longo (a cura di), Giovanni Messe, cit., pp. 183 e 195.
[8] Giorgio Scotoni e Sergej Ivanovič Filonenko (a cura di), Retroscena della disfatta italiana in Russia nei documenti inediti dell’8a Armata, Panorama, Trento 2008, Volume II, p. 298.
[9] Archivio centrale dello Stato (Acs), T-821, roll 260, item 3074: Perdite subite dai reparti organicamente dipendenti e da quelli di rinforzo nel periodo 20-31 agosto 1942, tenente colonnello Giovanni Fiore al Comando del XXXV Corpo d’armata, 7 settembre 1942.
[10] Archivio dell’Ufficio storico dell’Arma dei carabinieri, Documentoteca, busta 279, fascicolo 11: Relazione sull’attività svolta dai cc.rr. dell’8a Armata dalla data di costituzione della g.u. (10 maggio 1942) fino al settembre 1942, tenente colonnello Guido Mensitieri, 16 novembre 1942, pp. 7-8.
[11] Aussme, M/3, busta 395, fascicolo 1, sottofascicolo «Ordini XXXV Corpo d’armata (Csir)»: Elenco dei militari della divisione «Sforzesca» di transito in questa sede perché sbandati, dispersi o a loro dire prigionieri, successivamente liberatisi, maggiore Attilio Lentini, non datato [ma precedente al 29 agosto 1942].
[12] Aussme, M/3, busta 395, fascicolo 1, sottofascicolo «Ordini XXXV Corpo d’armata (Csir)»: fonogramma di Messe al Comando della Divisione Sforzesca, 29 agosto 1942.
[13] Acs, T-821, roll 259, item 3069: telescritto del generale Guglielmo Barbò al Comando del XXXV Corpo d’armata, 22 agosto 1942.
[14] Aussme, M/3, busta 395, fascicolo 1, sottofascicolo «Ordini XXXV Corpo d’armata (Csir)»: fonogramma di Messe al Comando della Divisione Sforzesca, 30 agosto 1942.
[15] Angelo Giarratano (a cura di Rinaldo Migliavacca), In Russia con il 54° Fanteria «Sforzesca», Triestepress, Trieste 1991, p. 92.
[16] Ivi, pp. 66-67.
[17] Agostino Roncallo e Fabrizio Borsani (a cura di), Uva, ribes e gelso. Storia di un caporale e di un esercito scomparsi nella steppa, Morlacchi, Perugia 2011, pp. 33-34, 129-135, alle date 25, 27, 28 agosto e 9 dicembre 1942.
[18] Aussme, L/13, busta 161, fascicolo «Archivio dell’Ufficio storico Sme-Fondazione Salvatores»: diario di guerra di Francesco Zito, pp. 60 e 69, 22 e 29 agosto 1942.
[19] Aussme, N/8, busta 1402, diario storico del Servizio informazioni militare, 23 settembre 1942, allegato 12: Relazione quindicinale sulla revisione della corrispondenza militare (1°-15 settembre 1942), p. 7, nota 3.
[20] Nelson Cenci, Ritorno, Rizzoli, Milano 1981, p. 13. Vedi pure Mario Lerda, Russia e Germania. Diario di guerra e di prigionia di un cappellano alpino, Nuova stampa, Revello 1987 (1a edizione 1974), p. 51.
[21] Fidia Gambetti, I morti e i vivi dell’Armir, Editori riuniti, Roma 1953 (1a edizione 1948), p. 25.
[22] Lucio Lami, Isbuscenskij l’ultima carica. Il Savoia Cavalleria nella campagna di Russia 1941-1942, Mursia, Milano 2011 (1ª edizione 1970), pp. 212-213, 215, 219.
[23] Nuto Revelli (a cura di), La strada del davai, Einaudi, Torino 1966, p. 33.
[24] Giuseppe Piergentili (a cura di), La voce dei cristalli. Fronte russo 1941-43, Herald, Roma 2009, p. 19.
[25] Luca Valente (a cura di), Due anni al volante su piste di neve e fango. Cronaca e immagini della campagna di Russia nel diario dell’autiere scledense Lino Sassaro (188° Autoreparto pesante), Menin, Schio 2008, p. 96.
[26] Acs, T-821, roll 260, item 3074: telescritto dalla Sezione informazioni della Divisione Sforzesca all’Ufficio informazioni del XXXV Corpo d’armata, 26 agosto 1942.
[27] Aussme, Fondo Messe, busta 17, fascicolo 7: copia tradotta del diario, p. 2.
[28] Fidia Gambetti, Cartoline in franchigia, Vecchiarelli, Roma 1993, p. 98.
[29] Acs, Minculpop, Gabinetto, busta 140, fascicolo 932, sottofascicolo «Atti»: lettera del 28 settembre 1942 di Cecco Cecchini.
[30] Acs, Minculpop, Gabinetto, busta 140, fascicolo 932, sottofascicolo «Atti»: lettera del 19 novembre 1942 di Grana a Fernando Mezzasoma (corsivo nel testo).
[31] Fabio Fattore, Gli inviati di Mussolini. I corrispondenti di guerra 1940-1943, Mursia, Milano 2018, pp. 179-180, 183-184.
[32] Acs, Minculpop, Gabinetto, busta 140, fascicolo 932, sottofascicolo «Atti»: lettera del 19 novembre 1942 di Grana a Mezzasoma.
[33] Aussme, H/1, busta 37, fascicolo 13: Appunto, Gray allo Stato maggiore del Regio Esercito, prima metà del marzo 1943 (corsivo nel testo originale).
[34] Ettore Doglio, Imprese della «Sforzesca». L’epica difesa sul Don nella dura battaglia dell’agosto, in «Il Resto del Carlino», 9 giugno 1943.
[35] Intervista del 29 ottobre 2007 a cura di Omar Di Leonardo, in Intervista a Enrico Betti