di Raffaello Pannacci
Il giorno 22 settembre 1942 una nota fiduciaria da Milano, compilata da una di quelle che comunemente chiamiamo «spie fasciste», descriveva in questo modo la flessione nell’umore della popolazione locale:
«Si è ritornati nel grigiore del pessimismo anche in conseguenza delle notizie di sensibili perdite subite in Russia da parte di nostri reparti impiegati non secondo i criteri della specialità, ma come riempitivi del momento, di trattamenti diversi fra truppe italiane e tedesche anche nei servizi e nei rifornimenti, che vengono riportate dai reduci di Russia»[1].
Il riferimento alle perdite e all’impiego improprio delle truppe è molto preciso e rimanda a un episodio che la letteratura militare non ha mai approfondito, a dispetto dell’eco che esso suscitò all’epoca fra i soldati. Si tratta dei combattimenti avvenuti fra Kotovskij e Jagodnyj a cavallo fra il 31 agosto e l’1 settembre 1942, vale a dire i primi scontri avuti in Urss dalle truppe alpine, giunte sul teatro bellico in oggetto da pochi giorni. Il contesto è noto: il 20 agosto 1942 prendeva il via quella che la storiografia italiana ha denominato «prima battaglia difensiva del Don». L’Armata rossa attaccò le linee italiane a cominciare dal settore tenuto dalla Divisione di fanteria Sforzesca, ottenendo alcuni limitati risultati. Nel tentativo di ristabilire la linea di contatto col nemico sul Don, il Comando dell’8ª Armata italiana ordinò che affiancassero le divisioni di fanteria alcune unità della divisione Tridentina, segnatamente i battaglioni Vestone e Val Chiese (6° Reggimento alpini), che in quel momento erano in marcia verso il Caucaso[2].
Le truppe alpine, così, contrariamente a quanto si riteneva in principio, vennero impiegate in terreno pianeggiante in un combattimento per il quale non erano preparate né materialmente né mentalmente, ottenendo anche alcuni buoni risultati, ma riportando perdite altissime e dovendo poi anche abbandonare le posizioni raggiunte per ordine superiore[3]. Questo tipo di impiego, com’è noto, sarebbe divenuto di lì in poi la norma sul fronte russo, ma la cosa non deve recare eccessiva sorpresa. Al fronte orientale, infatti, i comandi tedeschi fecero un utilizzo analogo delle proprie truppe di montagna. Ci basti ricordare che il XLIX Corpo d’armata alpino germanico, nell’autunno 1941, combatté al fianco del Csir durante la conquista della città di Stalino (oggi Doneck)[4]. La differenza, in questo caso, fu data dal modo in cui i comandi italiani impostarono l’azione, il quale, sulla base delle stesse testimonianze interne alla specialità alpina, risultarono discutibili. Il combattimento di Kotovskij è uno dei vari episodi della campagna di Russia in cui si nota una profonda discrasia fra il modo in cui la letteratura militare «ufficiale» lo descrive e quello in cui la memorialistica lo rammenta e commenta.
COMBATTIMENTO DI KOTOWSKIJ
1 settembre 1942
Guarda la città di Kotowskij su Google Maps
La relazione dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito sulle operazioni italiane in Russia (1977) narra tali eventi assai in breve e da un punto di vista esclusivamente cronachistico, riportando en passant le perdite dei battaglioni Vestone e Val Chiese: 633 uomini fra morti e feriti accertati[5]. Si tratta di un dato enorme e non è certo un caso che Mario Rigoni Stern lamentasse enfaticamente in una lettera come tale opera avesse dedicato solo due righe ad un combattimento in cui vennero quasi distrutti due battaglioni alpini da circa 1.200 uomini ciascuno[6]. Anche il generale Luigi Reverberi, comandante di divisione, nella sua Relazione sulle azioni svolte dalla divisione Tridentina al fronte russo, non si dilunga sulle perdite subite dai battaglioni alle sue dipendenze, pur definendole sanguinose[7]. Le memorie di guerra, per contro, tracciano un quadro ben diverso. Secondo Mario Odasso, capo dell’Ufficio operazioni del Corpo d’armata alpino, «l’impiego della Tridentina avviene in questa circostanza in modo quanto mai irrazionale. I reparti vengono avviati in linea a spizzico in settori diversi, con frazionamento sino alla compagnia, per cui nuovo inquadramento, nuova dipendenza, disorientamento delle truppe, il tutto nel quadro di un ambiente di lotta non conosciuto». Con la truppa autotrasportata in zona, i servizi e l’artiglieria, entrambi a dorso di mulo, si ritrovarono puntualmente in ritardo rispetto ai reparti di afferenza, alimentando la crisi logistico-operativa[8].
Alcuni ufficiali subalterni ricordano le azioni presso Kotovskij dell’1 settembre come un’irresponsabile ecatombe di alpini, un massacro che causò al battaglione Vestone «più morti e feriti di tutta la campagna di Grecia»[9]. Secondo altri ufficiali e sottufficiali le azioni furono mal condotte dagli stessi comandi alpini, che non comprendevano la natura della lotta in pianura[10]. Essi, dunque, mandavano avanti i soldati fidando nella pura e semplice compattezza dei reparti, il che, in sostanza, significava mettere in conto già dal principio alte perdite[11]. Secondo Nuto Revelli, le operazioni presso Kotovskij furono pure una smargiassata degli alti ufficiali alpini, un’azione «voluta a tutti i costi dai nostri comandi, ansiosi di esibirsi di fronte ai tedeschi»[12]. È sicuramente possibile che gli attacchi ostinati e con forze frazionate, lanciate in linea non appena raggiungevano la posizione, si dovessero al tentativo da parte del Comando d’armata di cancellare agli occhi dei tedeschi e pure dei comandi romani, anche a prezzo di gravi perdite, la buia pagina della Sforzesca di pochi giorni prima[13], una divisione della quale allora si parlava in questi termini: «Si è comportata in modo addirittura disgustoso, e perciò i russi l’hanno malmenata in modo così osceno. Di ciò i tedeschi ne hanno fatto immediatamente oggetto del loro disprezzo, nonostante che l’8a Armata italiana in Russia cercasse di tacitare la cosa»[14].
Non è facile dire a chi risalgano le responsabilità maggiori per le sanguinose perdite subite nel caso in oggetto dai reparti alpini, che oltretutto combattevano in un settore di fronte non direttamente amministrato da loro. Revelli individua fra le cause primarie del «massacro del 1° settembre» l’incapacità del Comando della Divisione Celere, che aveva la responsabilità dell’attacco in corso[15]. Un suo parigrado appartenente alla Sforzesca, invece, punta il dito contro il proprio comandante di divisione, il quale aveva la responsabilità non dell’attacco ma del settore di fronte sul quale gli alpini intervenivano in soccorso delle fanterie[16]. I comandi alpini in sottordine ci misero sicuramente del loro. A Kotovskij, infatti, «i russi, fra i girasoli, possedevano un reticolo di uomini disseminati in buche e dotati di armi leggere, in prevalenza mitragliatrici, parabellum e fuciloni anticarro»[17], che falciarono intere squadre di alpini. Con ogni evidenza, chi li comandava ignorava che i campi di girasoli erano già stati ripetutamente teatro di agguati da parte sovietica. In campi simili si erano svolti i primi combattimenti del Csir in terra sovietica fra l’11 e il 12 agosto 1941, presso Jasnaja Poljana[18]. Nei giorni e nelle settimane precedenti Kotovskij, nell’ambito della stessa «prima battaglia difensiva del Don», i campi di girasoli avevano già costituito un’insidia per diversi reparti italiani[19].
Stando alle testimonianze interne alla specialità, la truppa stessa era inesperta. Un capitano del battaglione Val Chiese parla per Kotovskij di panico generale presso gli alpini più giovani, come quelli della classe 1922, che ai colpi di mortaio da 81 millimetri («una nostra vecchia e quotidiana conoscenza d’Albania»), reagirono fuggendo e riparandosi irrazionalmente persino sotto le foglie di un vicino frutteto[20]. I comandi erano apparentemente consapevoli dell’impreparazione di una parte della truppa e probabilmente non ne avevano un buon concetto, come lascia intendere un capitano della compagnia comando del 6° Reggimento alpini:
«Il consuntivo delle perdite [del battaglione Val Chiese] si manifestò rilevante, particolarmente quello di una compagnia che oltre ai caduti e feriti aveva molti dispersi. Più tardi ad un rapporto ufficiali sull’andamento della battaglia il generale Luigi Reverberi, comandante della Tridentina, uomo di rara intelligenza e di vasta cultura e valorosissimo, ma un po’ vulcanico e aggressivo nel suo dire, si lasciò sfuggire un apprezzamento poco lusinghiero sulle numerose assenze all’appello. Il capitano Luciano Zani, comandante della 255a [compagnia] del Val Chiese, reparto che accusava il maggior numero di dispersi, stava sull’attenti e pareva assente col pensiero, mentre il suo sguardo che era rivolto verso i campi di girasole manifestava un profondo dolore. Quella stessa notte egli, insieme al cappellano del battaglione e ad alcuni alpini scelti […], si recò fra i girasoli a ricuperare le salme dei dispersi. L’indomani, schierati uno di fianco all’altro, i caduti ricevettero dal generale l’estremo saluto mentre grosse lacrime bagnavano i suoi occhi»[21].
Parafrasando, i comandi avevano messo in conto l’inettitudine al combattimento di una certa percentuale di alpini e avevano concluso a caldo che almeno una parte dei mancanti all’appello si fosse data alla macchia e sarebbe presumibilmente riapparsa in seguito.
Su Kotovskij esiste anche una documentazione d’archivio particolarmente significativa, sia in quanto coinvolge personaggi di primo piano della campagna di Russia sia perché si tratta di documenti a carattere «interno», non concepiti per la divulgazione. Vale la pena di riportare per intero tali carte, che rendono un’idea esatta del clima di approssimazione in cui si svolse la seconda fase della campagna, a partire dall’estate 1942. Un paio di giorni dopo l’episodio di Kotovskij il comandante del Corpo d’armata alpino, generale Gabriele Nasci, inviò un telescritto al suo superiore generale Italo Gariboldi, comandante dell’8ª Armata italiana:
«Eccellenza,
a seguito del colloquio avuto il 30 agosto con l’Eccellenza Vostra e in base alle prime notizie indirette che mi sono pervenute dalla linea, ritengo doveroso esporVi il mio pensiero quale Comandante del Corpo d’armata alpino e più ancora quale Ispettore della specialità. Il Corpo d’armata alpino fu costituito per soddisfare da parte dello S.M.[22] italiano ad una specifica richiesta dello S.M. germanico e la sua venuta in Russia va pertanto messa in relazione ad un impiego come unità di Corpo d’armata e non come divisioni e tanto meno come battaglioni.
Per questo scopo con grande sacrificio fu privato l’esercito in patria delle tre divisioni alpine e fu costituita l’unità maggiore per poterla far funzionare qui come tale. Invece i battaglioni Vestone e Val Chiese della Tridentina parteciparono il giorno 1°, isolati, ad un’azione di parziale rettifica, incuneati fra truppe di diversa possibilità e senza l’abituale ed indispensabile appoggio della loro artiglieria. Il Vestone isolato si spinse (a quanto mi è stato riferito) tanto avanti da giungere sulle artiglierie nemiche e ripiegò in seguito ad ordine superiore. Praticamente l’azione si chiuse con scarsi risultati, mentre si sono avuti fra i due battaglioni le seguenti perdite: ufficiali 23; sottufficiali una ventina; alpini circa 500.
Senza tener conto della ripercussione morale negativa che può aver avuto sugli alpini in questo primo contatto con il nemico l’abbandono delle posizioni raggiunte, è evidente che con il ripetersi di un tale impiego di battaglioni isolati si andrebbe incontro:
a). al logorio dei battaglioni e con questo al logorio delle divisioni e di conseguenza del Corpo d’armata senza che, come tale, abbia mai funzionato;
b). al pericolo di una depressione morale dei reparti che trovano già inspiegabile la loro destinazione in zona non adatta alla loro particolare attrezzatura e specialità.
Tutto questo, a mio modo di vedere, oltre che rappresentare oggi una dannosa rinuncia alle possibilità del Corpo d’armata alpino, finirà per compromettere la sua efficienza per l’avvenire. Mi permetto pertanto [di] pregare l’Eccellenza Vostra di voler evitare un simile impiego di reparti»[23].
Nasci, oltre a ribadire – come sempre – la pretesa superiorità delle truppe di montagna rispetto alle fanterie, ardiva di precisare al proprio diretto superiore quale uso fare e non fare del Corpo d’armata alpino. La risposta di Gariboldi, di due giorni successiva, è secca e perentoria:
«Comprendo il desiderio del Comandante del C.d’A.[24] alpino d’avere con sé tutte le sue truppe; è naturale. Ma comprendo e molto bene anche la mia responsabilità di Comandante d’Armata. Non conosco nessuna disposizione che vincoli l’impiego del Corpo d’armata alpino, le sue divisioni, i suoi elementi. Anzi ritengo che proprio le truppe alpine siano le meglio adatte all’impiego per singole unità.
Ad ogni modo quando la situazione lo richiede ritengo fermamente non solo [di] potere ma di dover impiegare quanto ho sotto mano. Questo è appunto il caso verificatosi. I battaglioni alpini del 6° [Reggimento] impiegati si sono comportati bene ed il loro morale è altissimo. Quando la Tridentina sarà tutta riunita tornerà sotto il suo comando organico»[25].
La replica del comandante dell’8ª Armata non lasciava spazio a intepretazioni e mostra anche come, di fronte alle necessità impellenti del momento, egli non potesse né volesse tener conto delle peculiarità delle truppe di montagna, sul cui utilizzo parcellizzato non concordava affatto con Nasci. Questo significativo scambio di vedute è riportato nella relazione dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito sulle operazioni italiane al fronte russo, segnatamente nella raccolta documentaria finale[26]. I due documenti, però, non sono accompagnati da alcun commento né i curatori dell’opera hanno trattato l’argomento nei capitoli interni.
Lo scambio fra Nasci e Gariboldi, invece, è significativo perché aggira in ogni modo un problema centrale portato a galla proprio dalle notevoli perdite subite dagli alpini alla prima occasione di scontro col nemico: l’effettivo utilizzo delle truppe italiane di montagna al fronte russo. Nasci si lamentava col proprio superiore che le truppe ai propri ordini si consumassero in un utilizzo diverso da quello per cui erano state inviate in Russia, ma non esisteva alcuna garanzia sul fatto che gli alpini italiani sarebbero finiti sul Caucaso, tanto più che nel febbraio-marzo 1942, ossia quando si iniziò ad approntare il Corpo d’armata, il Caucaso non era certo nelle mire dell’Asse. Gariboldi, dal canto suo, nascondeva dietro alle proprie prerogative di superiore il fatto che fosse egli stesso, per necessità pratiche, il fautore di un utilizzo del Corpo d’armata alpino nell’ambito dell’Armata italiana in Russia, quindi certo non nel Caucaso (punto sul quale – come già detto – c’era perfetto accordo coi vertici romani). Quel che nessuno dei due ufficiali osava dire è che né il Comando d’armata né quello del Corpo d’armata alpino avevano idea di quanto i vertici politico-militari italo-tedeschi avessero concordato circa la destinazione delle truppe italiane al fronte russo. L’unica cosa certa era il notevole accrescimento dell’impegno in quel teatro bellico, ma Mussolini e il Comando supremo non sapevano che tipo di guerra l’Armir avrebbe fatto né avevano la certezza che i tedeschi avrebbero permesso alle truppe di montagna italiane di contribuire ad un’eventuale conquista del Caucaso.
Nell’assenza quasi totale di informazioni in merito da parte dei loro governanti e degli organi superiori in patria, i comandi in loco si preoccupavano piuttosto di non vedersi attribuire le responsabilità di un combattimento mal condotto. Ogni documento italiano prodotto in merito all’epoca punta il dito contro il mancato concorso dei carri armati tedeschi, che avrebbero esposto le truppe alpine ai contrattacchi sovietici e vanificato i risultati raggiunti[27]. Frattanto il comandante del Corpo d’armata alpino parlava di «fiere virtù guerriere», di «irruente slancio» e di «magnifiche tradizioni di aggressività e tenacia delle nostre truppe»[28], il che doveva distogliere l’attenzione da un totale (non ancora aggiornato) di 546 fra morti, feriti e dispersi avuti dai due battaglioni Vestone e Valchiese (586, secondo altre fonti sempre coeve)[29]. Ancora Revelli, per concludere, narra questo episodio. Subito dopo i combattimenti di cui parliamo fu nominato comandante del battaglione Tirano il maggiore Gerardo Zaccardo, in sostituzione del parigrado Gaetano Volpatti, morto proprio in quelle circostanze. Zaccardo, assai critico nei confronti degli alti comandi che avevano pianificato le operazioni fra Kotovskij e Jagodnyj, mise gli ufficiali alpini al corrente di quanto si fosse architettato al fine di giustificare «in alto», nel modo più logico e indolore possibile, l’elevato numeri di morti, feriti e dispersi occorso in quelle ore: «Per Roma è già partita questa giustificazione: le ingenti perdite sono dovute all’eccessivo spirito combattivo delle truppe alpine non ancora idonee a combattere in pianura»[30]. Come spesso nella storia della campagna di Russia, una serie di errori dei comandi e di difetti della truppa veniva celata dietro a delle presunte qualità del soldato italiano.
[1] Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Divisione Polizia politica (Acs, Min, Dgps, Pol. pol.), busta 238, fascicolo 1 (corsivo mio).
[2] Contrariamente a quanto è stato più volte scritto, non fu questo il motivo per cui gli alpini vennero richiamati sul Don. L’ordine di cambiare direzione, infatti, risale al 19 agosto 1942, per cui precede nel tempo l’attacco dell’Armata rossa. Gli alpini, in realtà, furono richiamati presso l’Armir perché un loro invio a centinaia di chilometri dal resto delle truppe italiane, oltre a rendere quanto mai problematici logistica e rifornimenti, era contrario al principio d’impiego unitario delle truppe del Regio Esercito, come già stabilito l’anno precedente. Cfr. anche Raffaello Pannacci, L’occupazione italiana in Urss. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941-1943), Carocci, Roma 2023, pp. 29-30.
[3] Costantino De Franceschi, Giorgio de Vecchi, Fabio Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma 1993 (1a edizione 1977), pp. 234-293, in particolare pp. 282-285 e 291.
[4] Ivi, pp. 108-116.
[5] Ivi, p. 285. Il mancato concorso tedesco all’azione, sul quale la letteratura italiana insiste, costrinse gli alpini ad abbandonare posizioni conquistate proprio a prezzo di quelle perdite, rendendole in parte vane.
[6] Archivio di Stato di Terni, Fondo «Gino Papuli», busta 48, fascicolo 153: lettera del 9 gennaio 2003 di Rigoni Stern al già sottotenente Gino Papuli. La lettera è riportata per intero nel nostro articolo Gino Papuli, la «colonna Carloni» e la memoria dei «fatti di Pavlograd».
[7] Vedi Giulio Bedeschi (a cura di), Fronte russo: c’ero anch’io, Mursia, Milano 1983, Vol. II, p. 16.
[8] Mario Odasso, Col Corpo alpino italiano in Russia, Panfilo, Cuneo 1949, pp. 23-25.
[9] Nuto Revelli, Mai tardi. Diario di un alpino in Russia, Einaudi, Torino 2001 (1ª edizione 1946), p. 32; Id., Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Einaudi, Torino 2003, pp. 86 e 98-99; Cristoforo Moscioni Negri, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, Il Mulino, Bologna 2005 (1a edizione 1956), p. 8.
[10] Gaetano Maggi, La mia naja alpina, Mursia, Milano 1989, pp. 129-134; C. Moscioni Negri, I lunghi fucili, cit., pp. 19-22.
[11] N. Revelli, Le due guerre, cit., pp. 98-99, che riporta l’opinione del suo superiore maggiore Gerardo Zaccardo.
[12] Id., Mai tardi, cit., p. 59.
[13] Giusto Tolloy, Con l’armata italiana in Russia, Mursia, Milano 1968 (1ª edizione 1947), pp. 88-89.
[14] Acs, Min, Dgps, Pol. pol., busta 215, fascicolo 2: nota fiduciaria datata Verona, 4 settembre 1942. Alle vicende della divisione Sforzesca nell’agosto 1942 sarà dedicato un articolo a parte.
[15] N. Revelli, Mai tardi, cit., pp. 33-35.
[16] Testimonianza di Valerio Sella, tenente del 54° Reggimento fanteria, in G. Bedeschi (a cura di), Fronte russo, cit., Vol. I, pp. 389-393.
[17] Testimonianza di Luigi Ciuffarin, capitano della compagnia comando del 6º Reggimento alpini, ivi, Vol. II, p. 175.
[18] Francesco Valori, Gli Italiani in Russia. La campagna dello Csir e dell’Armir, Bietti, Milano 1967, p. 64.
[19] Due esempi: Loris Lenzi, Dal Dnieper al Don. La 63ª Legione Cc.nn. «Tagliamento» nella campagna di Russia, Volpe, Roma 1972 (1ª edizione 1968), pp. 327-328; Giulio De Giorgi, Con la Divisione Ravenna. Tutte le sue vicende sino al rientro dalla Russia (1939-1943), Longanesi, Milano 1973, p. 55.
[20] Testimonianza di Biagio Festini, in G. Bedeschi (a cura di), Fronte russo, cit., Vol. II, pp. 153-154.
[21] Testimonianza di Luigi Ciuffarin, ivi, Vol. II, p. 176.
[22] Acronimo di Stato maggiore.
[23] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (Aussme), N/5, busta 974, diario storico del Corpo d’armata alpino, settembre-ottobre 1942, allegato 81: telescritto di Nasci a Gariboldi, 4 settembre 1942.
[24] Acronimo di corpo d’armata.
[25] Aussme, N/5, busta 974, diario storico del Corpo d’armata alpino, settembre-ottobre 1942, allegato 83: Impiego unità del C.A. alpino, Gariboldi a Nasci, 6 settembre 1942.
[26] C. De Franceschi, G. de Vecchi, F. Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo, cit., pp. pp. 686-687.
[27] Aussme, N/5, busta 850: La Divisione «Tridentina» nella seconda guerra mondiale (lavoro dell’Ufficio storico dello Stato mggiore dell’Esercito), pp. 22-23; Aussme, N/5, busta 850, diario storico del Comando Divisione Tridentina, 1 settembre 1942; Aussme, N/5, busta 850, diario storico del 6° Reggimento alpini, 1 settembre 1942; Aussme, N/5, busta 850, diario storico del 6° Reggimento alpini, settembre-ottobre 1942, allegato 3: relazione non titolata né firmata [settembre 1942]; Aussme, N/5, busta 974, diario storico del Corpo d’armata alpino, settembre-ottobre 1942, allegato 78: Promemoria per il sig. capo di s.m. del C.a.a., capitano Mariano Russo, 4 settembre 1942.
[28] Aussme, N/5, busta 850, diario storico del 6° Reggimento alpini, settembre-ottobre 1942, allegato 3: Ordine del giorno n. 10, 3 settembre 1942.
[29] Aussme, N/5, busta 850, diario storico del 6° Reggimento alpini, 1 settembre 1942; Aussme, N/5, busta 850, diario storico del Comando Divisione Tridentina, 1 settembre 1942.
[30] N. Revelli, Mai tardi, cit., p. 32; Id., Le due guerre, cit., p. 99.