Fiamme e flammieri nella campagna italiana di Russia

di Raffaello Pannacci

Nella documentazione fotografica relativa alla guerra condotta dall’Italia al fronte russo non è raro imbattersi in azioni in cui i protagonisti siano reparti dotati di lanciafiamme. L’Archivio dell’Istituto Luce conserva immagini simili, come le due – che figurano in questo articolo – intitolate «Soldati in azione con i lanciafiamme snidano i russi nella primavera 1942»1. Per fare altri esempi, esiste un album fotografico sulla campagna di Russia un cui capitolo, intitolato «Ore di lotta, di gloria e di tragedia», ci mostra scatti artigianali che ritraggono «flammieri» italiani impegnati in azioni risalenti quasi certamente al primo inverno di guerra (1941-42)2. Anche gli scritti dell’epoca forniscono un’idea dei compiti – invero alquanto crudi – spettanti a coloro che manovravano tale strumento di guerra. Scriveva a casa un soldato di un reparto imprecisato:

Voglio darti una notizia che ti farà piacere senz’altro. Se fino ad ora ci siamo limitati a tenere il fronte sul Don restando solo ad aspettare che venissero i Russi per darle qualche buona stangata, ora è un po’ di tempo che andiamo noi a passare le nottate al di là del Don. C’ero anch’io per l’appunto che facevo parte della puntata, col mio apparecchio in spalla, assieme ad altri lanciafiammisti, e grande fu la mia soddisfazione quando potei far fuoco e abbrustolire più d’uno di quei Russi che tenevano la postazione. Son contento aver partecipato all’azione3.

Come in altri teatri della Seconda guerra mondiale, al fronte orientale si fece un discreto utilizzo dei lanciafiamme. Il Regio Esercito, anch’esso dotato di reparti di flammieri, non fece eccezione in questo. Le compagnie di lanciafiamme, dette compagnie «L», erano parte del Servizio chimico del Regio Esercito. Nel periodo in cui fu presente al fronte il solo Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir), la Compagnia «L» in organico faceva parte del Battaglione chimico al seguito del corpo d’armata in oggetto. Nel secondo anno di guerra, invece, vi furono due diverse compagnie di lanciafiamme, rispettivamente inquadrate nei Battaglioni chimici I e IV, a loro volta dipendenti dall’8° Raggruppamento chimico dell’Armata italiana in Russia (Armir)4. Il lanciafiamme classico, lo stesso utilizzato in quel teatro di guerra, era «spalleggiabile». Esso andava indossato a mo’ di zaino ed era costituito da un serbatoio di liquido altamente infiammabile, che veniva pressurizzato ed espulso a comando da un propellente (aria o azoto), passando attraverso una «lancia» dotata a sua volta di un meccanismo di ignizione istantaneo (candela d’accensione).

Ciò che usciva dalla bocca dell’arma, dunque, non erano fiamme libere, ma getti di gasolio misto a benzina già infiammati, molto più pericolosi delle prime. Tali getti, infatti, potevano essere proiettati a diversi metri di distanza (fino a 20) e soprattutto continuavano ad ardere anche una volta raggiunto l’obiettivo, umano o materiale che fosse. L’arma, pertanto, aveva un effetto potenzialmente devastante sia per la sua stessa natura distruttiva sia perché, anche laddove non uccideva né feriva, creava una cosiddetta «zona di calore insopportabile», ampia molti metri quadrati, nella quale il nemico non poteva fisicamente trovarsi. Per contro, il lanciafiamme aveva lo svantaggio di pesare molti chilogrammi (da 18 a quasi 30, a seconda del modello) e di impedire il flammiere nei movimenti, il che lo rendeva vulnerabile quando si trovava allo scoperto sul campo di battaglia. La ricarica del combustibile, inoltre, doveva necessariamente avvenire al chiuso e in luogo sicuro5.

Soldati in azione con i lanciafiamme snidano i russi nella primavera 1942

I lanciafiamme a spalla venivano utilizzati per diversi scopi. Essi potevano prendere parte ad azioni offensive, come ad esempio tentativi di espugnare trincee o posizioni comunque fortificate difficili da assaltare con armi automatiche classiche. Potevano essere utilizzati, viceversa, in fase difensiva al fine di respingere attacchi nemici. Potevano essere impiegati non necessariamente contro membri di un esercito nemico, come ad esempio contro partigiani annidati in ricoveri di fortuna. Infine, potevano essere usati anche in condizioni di assenza di combattimento vero e proprio, ossia non contro le persone ma per disboscare col fuoco alcune aree da tenere sotto controllo, dove la vegetazione rischiava di dare ricovero al nemico o comunque di favorire l’avvicinamento di truppe ostili o di bande «irregolari». Il disboscamento presso vie di comunicazione e accampamenti era un metodo diffuso di prevenzione degli attacchi partigiani, come mostra ad esempio anche un ordine del Comando della Divisione Vicenza dell’ottobre 19426.

I reparti italiani al fronte russo ricorsero in molteplici occasioni alle unità dotate di lanciafiamme, specialmente all’epoca del Csir, ovvero nel primo anno di guerra. Ce ne parlano i documenti originali d’archivio, che mostrano come verso la fine del 1941 l’utilizzo dell’arma fosse ormai divenuto usuale7. Ce ne racconta appassionatamente Vittore Querèl, poi, allora giornalista e comandante di plotone nella Divisione Torino, che avrebbe pubblicato due diversi libri di memorie della campagna di Russia, uno nel 1943 e l’altro 30 anni dopo, col secondo comprensibilmente omissivo circa simili aspetti della guerra e sulla lotta antipartigiana in generale8. Innanzitutto, i reparti della Compagnia lanciafiamme del Csir combatterono aggregati alla Divisione Celere durante la conquista di Stalino (oggi Donetsk), nella quale le truppe italo-tedesche penetrarono il 20 ottobre 1941. Subito dopo i flammieri furono aggregati alle altre due Divisioni del Csir, la Pasubio e la Torino, negli scontri sulla cosiddetta «Linea Zeta» (a Grosnij, ad esempio), a cavallo fra i mesi di ottobre e di novembre9. Alla fine dell’ottobre 1941, frattanto, i reparti della Compagnia «L» furono «incaricati della pulizia del bosco» fra Snamenka e Pavlograd, che si estendeva per oltre 100 chilometri quadrati di superficie, nel quale si erano fortificate varie centinaia di partigiani sovietici10.

Negli scontri fra novembre e dicembre 1941, con le linee italiane continuamente pungolate da piccoli e reiterati attacchi di disturbo, il Comando del Csir ordinò che «tutti i 117 lanci[afiamme] attualmente disponibili» presso la Compagnia «L» fossero ceduti ad un solo plotone della Compagnia e che tale plotone fosse messo a disposizione del Comando della Divisione Torino. Questo lo avrebbe impiegato a massa presso Rykovo (oggi Enakjeve) per stroncare sul nascere l’attacco imminente con la sorpresa dovuta all’impiego di tale nuova arma11. Ancora ai primi del dicembre 1941, negli scontri presso Debaltsevo e Volintsevo, a ridosso della battaglia di Khazepetovka, flammieri alle dipendenze dell’82° Reggimento fanteria (Divisione Torino) annientarono alcuni fortilizi nemici bruciandone i soldati posti a difesa. Querèl, già menzionato sopra, scrive che «la Compagnia lanciafiamme del Csir si impose all’ammirazione degli alleati [tedeschi] e dei camerati delle altre armi e specialità nelle dure giornate di dicembre». In quel frangente i lanciafiamme «ebbero il loro da fare» soprattutto durante la presa di Khazepetovka, appunto, durante la quale «si distinse il 3° plotone della Compagnia», vale a dire «lo stesso poi che avrebbe contribuito alla presa di Jelenovka e che […] sarebbe per primo balzato fuori dalle trincee, onde aprire il varco alle fanterie lanciate all’assalto delle linee russe»12.

Soldati in azione con i lanciafiamme snidano i russi nella primavera 1942 - Foto Archivio Centrale di Stato

Sempre in quegli stessi giorni di dicembre le truppe della Divisione Torino rastrellarono la zona nord-est dell’abitato di Rykovo con bombe a mano e lanciafiamme, «snidando» un «nemico fortemente annidato»13. Col tempo divenne usuale l’impiego dei lanciafiamme in quei casi in cui i capisaldi nemici fossero assai ostici e difficili da eliminare, come ci mostrano i rapporti in merito stesi all’epoca14. Tuttavia – narra sempre il tenente giornalista – «le pagine più belle dei lanciafiammisti furono scritte nella cosidetta sacca sotto di Charkov», cioè più tardi, nel maggio 1942. In quel periodo unità di lanciafiamme furono inviate ad occupare un paese a sud della grande città ucraina, dove aggirarono le postazioni nemiche e bruciarono a più riprese i difensori. I lanciafiammisti, poi, rivolsero ripetutamente le armi contro un reparto di cavalleria cosacca: «Molti di questi [soldati] bruciavano orrendamente in mezzo alle fiamme e al nero densissimo fumo emanato dalle bocche del lanciafiamme»15.

Nel secondo anno di guerra i lanciafiamme furono utilizzati in alcune occasioni per effettuare rastrellamenti di partigiani o comunque operazioni offensive contro di loro (come in Jugoslavia). Ai primi dell’ottobre 1942, ad esempio, un’unità mista di carabinieri e di fanti della Divisione Cosseria, guidata da un capitano dell’Arma, individuò presso Visokij un «covo» in cui si nascondeva una ventina di partigiani, già membri dell’Armata rossa. Il gruppo si servì pure di due squadre di lanciafiamme per avere ragione del nemico, del che ci dà esatta notizia il rapporto steso in seguito dall’ufficiale al comando:

All’intimazione [di resa] più volte ripetuta non si aveva alcuna risposta, allora [lo scrivente] ordinava di fare uso dei lanciafiamme dentro le tane. Subito dopo cominciava l’incendio dei giacigli e lo scoppio di numerosi proiettili d’arma da fuoco portatile e di qualche bomba a mano16.

I flammieri, in sostanza, venivano di norma gettati nella lotta quando il nemico non intendeva arrendersi e al contempo non era possibile stanarlo in altro modo, il che dava origine a scene di guerra cruente, non dissimili da quelle che al cinema spettacolarizzano la guerra combattuta ad uso e consumo dello spettatore. Ricorda un alpino a distanza di decenni:

Verso la metà di dicembre [1942] ci mandarono nei pressi di Nowo Kalitwa a tamponare quando arretrò la [Divisione] Cosseria. Che fuoco d’inferno una notte! Forse è il fatto di guerra più cruento che io abbia vissuto in prima persona. Ci si accorse che ci stavano aggirando. Fu un caso: qualcuno vide tornare indietro i muli che portavano il rancio a quelli in prima linea e si accorse che erano ancora carichi mentre i conducenti non c’erano più. Qualcosa di serio doveva essere successo. Andammo verso la linea. I russi si erano annidati in una fossa anticarro o in un avvallamento, non ricordo, fatto sta che i nostri battaglioni d’assalto andarono all’attacco coi lanciafiamme e li annientarono lì in quella specie di trincea. Erano una cinquantina, forse più e li bruciarono tutti… dovevi sentire che grida… Non potevano più ritirarsi ma non volevano arrendersi e così furono annientati in quel modo17.


1 Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 54, immagini 43917 e 43921.

2 Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma (d’ora in poi Aussme), N/8, busta 1559, fascicolo 1: Raccolta documentazione fotografica, a cura della Direzione trasporti Csir e Armir, non datato [ma primavera-estate 1943].

3 Lettera dell’8 dicembre 1942 di Gino Garuffo, citata in Quinto Antonelli-Sergej I. Filonenko, «Vincere! Vinceremo!». Cartoline sul fronte russo (1941-1942), Fondazione Museo storico del Trentino, Trento 2011, pp. 27-28.

4 Filippo Cappellano, Armi chimiche del R. Esercito in Russia, in «Storia militare», anno V (1997), numero 46, pp. 53-56.

5 Filippo Cappellano, I lanciafiamme italiani. Lo sviluppo, l’ordinamento e l’impiego nel Regio Esercito dal 1919 al 1943, in «Storia militare», anno VIII (2000), numero 78, pp. 4-18. sui particolari tecnici vedi pure Letterio Musciarelli, Dizionario delle armi, Mondadori, Milano 1978, pp. 242-243.

6 Giorgio Scotoni-Sergej I. Filonenko (a cura di), Retroscena della disfatta italiana in Russia nei documenti inediti dell’8a Armata, Panorama, Trento 2008, Volume I, pp. 174-175.

7 Vedi Aussme, M/3, busta 497, fascicolo 2 per i frequenti riferimenti all’impiego.

8 Vittore Querèl, Fronte Est. Un anno di guerra del Csir, L’Albero, Verona 1943; Id., Porta la vacca al toro. La Divisione Torino al fronte russo, Trevi, Roma 1973.

9 V. Querèl, Fronte Est, cit., p. 248; Aussme, M/3, busta 497, fascicolo 2, Allegato 152: comunicazione telefonica dal Comando della Divisione Torino al Comando del Csir, non firmato [ma sicuramente generale Luigi Manzi], 9 dicembre 1941.

10 V. Querèl, Fronte Est, cit., pp. 247-248.

11 Aussme, M/3, busta 497, fascicolo 2, Allegato 10: fonogramma dal Comando del Csir al Comando della 1a Compagnia lanciafiamme, firmato generale Giovanni Messe, 1 dicembre 1941.

12 V. Querèl, Fronte Est, cit., pp. 178 e 246-248.

13 Aussme, N/11, busta 4007, fascicolo «Csir: novembre 1941»: telescritto dal Comando del Csir al Comando supremo, firmato Messe, 10 dicembre 1941.

14 Aussme, L/14, busta 79, fascicolo 4: Relazione sull’impiego del III plotone lanciafiamme assegnato alla Div. Torino, firmato capitano Giuseppe Marino, non datato [ma dicembre 1941].

15 V. Querèl, Fronte Est, cit., pp. 249, 258-264 (260 per la citazione).

16 Di questo e di altri episodi di caccia ai partigiani parla Raffaello Pannacci, L’occupazione italiana in Urss. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941-1943), Carocci, Roma 2023, pp. 91-116.

17 Testimonianza citata in Antonio Bellati (a cura di), Italjanskij choroscij-Italiano buono. Gli alpini valsassinesi reduci dalla campagna di Russia raccontano ancora, Banca di piccolo credito valtellinese, Sondrio 1985, p. 73.

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