Introduzione
Nell’affrontare un argomento simile, è d’obbligo una premessa. Si potrebbe dire che fare un quadro generale di come e quanto si alimentassero i soldati italiani al fronte russo e/o di come se la passassero in termini di salute fisica sia una fatica improba. La realtà, invece, è che si tratta di un compito quasi impossibile. I dati in merito sono sporadici, vanno reperiti in luoghi archivistico-bibliografici disparati e non sempre provengono da fonti sicure. Ciononostante, vale la pena di fare un tentativo di studio anche senza alcuna pretesa di essere esaustivi, in specie in considerazione del fatto che non esistono pubblicazioni in merito a due temi così importanti e così strettamente correlati. Dopo la campagna di Russia, infatti, il mondo militare ha toccato argomenti simili sono en passant e con una buona dose di edulcorazione ai fini apologetici[1]. Gli storici sono andati poco oltre, offrendo qualche suggestione e indicando vie ancora da percorrere[2]; il che, comunque, è certo meglio del nulla completo o delle verità «accomodate» e selettive di lavori – anche recenti – avallati dai vertici dell’Esercito italiano[3].
Questi appunti – per così dire – sono un tentativo di collazionare elementi utili a comprendere come e quanto il Regio Esercito abbia preparato e servito le truppe che dovevano vivere e battersi nel teatro di guerra russo, in relazione al clima, alle condizioni ambientali, alla natura della guerra che vi si combatteva e alle possibilità materiali della logistica italiana. Essi sono basati su materiale archivistico edito e inedito e su pubblicistica di vario genere, inclusa quella di natura militare. Alcune suggestioni in questo senso provengono dalle memorie di guerra e dagli studi dei reduci di Russia più critici e analitici nei confronti dell’esperienza personale e collettiva sul fronte orientale. Ad ogni modo, solo una minima parte delle osservazioni fatte dai diretti interessati si trova in questo breve lavoro, soprattutto a causa della sovrabbondanza di riferimenti memorialistici a questioni come la qualità, la quantità e la regolarità del vitto al fronte russo, i quali – sia detto per inciso – sono già di per sé indicativi di uno stato di malessere diffuso.
L’alimentazione al fronte
Nel luglio 1941, proprio a ridosso della partenza del Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir), la Direzione generale di Sanità militare presso il Ministero della Guerra pubblicò una guida appositamente creata per i quadri comando e per i soldati destinati in Urss. Vi si raccomandava, fra le altre cose, di «non usare galletta e prodotti in scatola per più giorni di seguito», ovviamente al fine di scongiurare l’eventualità dello scorbuto, che si sviluppa in assenza di vitamine della frutta e della verdura[4]. In realtà, chiunque abbia dimestichezza con la letteratura prodotta dai soldati al fronte russo è al corrente di due fatti difficilmente contestabili. Il primo è che i cosiddetti «pasti caldi» erano rari e che durante le marce era la norma consumare gallette e carne in scatola anche per giorni di fila (che poi era esattamente ciò che i comandi in loco volevano evitare quando invitavano i soldati a «vivere sulle risorse locali»[5]). Il secondo fatto è che molti soldati italiani in Urss, in specie quelli in prima linea, soffrivano spesso la fame.
Soldati preparano il rancio in Russia nell’autunno-inverno 1941, Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 42, immagine 32731.
Questo, fra l’altro, rende del tutto incredibile che il Regio Esercito fosse in grado di assicurare ai prigionieri sovietici la medesima razione alimentare standard del soldato italiano, secondo le convenzioni internazionali. All’atto pratico, infatti, vale a dire sul campo, veniva del tutto a mancare lo standard; il concetto stesso di razione italiana era divenuto all’epoca decisamente opinabile e variava moltissimo a seconda del luogo e del momento[6]. In sostanza, tanto il Csir quanto l’Armata italiana in Russia (Armir) ebbero a più riprese gravi problemi di approvvigionamento e di gestione delle risorse, sia per insormontabili motivi di conservazione e di trasporto degli alimenti (in specie alle basse temperature) sia per oggettive deficienze nella logistica di guerra, così ché i reparti in linea risultavano spesso privi dell’indispensabile. L’alimentazione durante le marce e quella dei reparti di prima linea fu sempre insufficiente o comunque sbilanciata nelle proporzioni dei nutrienti essenziali.
Anche lasciando da parte fibre e vitamine (in realtà fondamentali), ad un consumo sufficiente e talora abbondante di cereali e dei loro derivati, facilmente reperibili in loco (pane, patate, granturco), non faceva riscontro un adeguato apporto di proteine animali, necessarie alla ricostituzione muscolare. La larga maggioranza dei soldati non si avvicinava neanche lontanamente alle 3.569 calore al giorno previste dalle tabelle alimentari per la vita al fronte russo, quantità che gli studi hanno ritenuto comunque insufficiente, al netto della possibilità o meno di reperirle e di assumerle[7]. La quantità di calorie era teoricamente sufficiente per la vita in prima linea, ma diveniva pericolosamente bassa per l’inverno russo, soprattutto quando i pasti cominciavano a farsi discontinui a causa delle disfunzioni logistiche e in fase di guerra di movimento, ossia assai spesso per buona parte del primo anno del conflitto in Russia. Narra un ufficiale: «Si mangiava un misero rancio soltanto di notte, sul lavoro: un po’ di pasta con poco brodo e un pezzo di lesso stopposo era la razione unica di ragazzi di vent’anni a quaranta sotto zero, che picconavano tutta la notte [per scavare rifugi]»[8].
Gruppo di soldati intorno ad una mucca in Ucraina nell’agosto 1941, Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 35, immagine 26967.
Il consumo di carne era difficile per più motivi. In primo luogo, l’accentramento nella gestione del bestiame e il monopolio della macellazione da parte degli enti appositi rendevano l’afflusso del prodotto finale ai reparti lento e difficoltoso, per cui molteplici erano le unità spesso del tutto prive di carne fresca per giorni o addirittura per settimane. Nell’autunno 1941 il tenente al comando di una compagnia del 79° Reggimento fanteria (Divisione Pasubio), che appariva «provatissima e in non perfette condizioni», riferì che i suoi uomini erano «senza viveri e che da quindici giorni non mangia[van]no carne»[9]. Nel Reggimento Savoia cavalleria, che pure non difettava di scorte di generi alimentari, mancava una quantità regolare e sufficiente di carne fresca, di cui particolarmente sentita era l’esigenza in quel primo inverno di guerra[10]. Per fare altri esempi, presso la Divisione Torino nell’aprile 1942 fu distribuita una doppia razione di carne per diversi giorni, per un totale di mezzo chilo al dì, ma questa disposizione dipese dalla necessità di smaltire scorte già macellate che stavano andando in putrefazione, tanto che molti soldati rifiutarono quei viveri[11].
In secondo luogo, era sicuramente lungi dall’essere ottimale la gestione dei cosiddetti «parchi di carne in piedi», vale a dire gli stock di animali vivi acquistati o più spesso requisiti sul posto, con cui dovevano essere alimentate le truppe. Nell’autunno 1941, ad esempio, gli italiani gestivano a Novosëlka (Ucraina) un grosso «parco di bovini di preda bellica» il quale, ispezionato dal capo dell’Ufficio ippica e veterinaria del Csir, si rivelò in condizioni misere. Gli animali affondavano in 20 centimetri di fango, vivevano quasi all’aperto e le perdite per malattie dovute a denutrizione erano all’ordine del giorno. I capi di bestiame erano in alcuni casi in stato di chachessia e di marasma, con un deperimento organico evidente in specie nei suini. Fra questi, oltretutto, si era diffuso il «mal rossino», contagioso, che in mancanza di cure e di profilassi si espandeva con una certa rapidità[12]. Per ovviare a questa situazione, la mandria allocata nel campo di Novosëlka venne trasferita a Kamenka; bovini e pecore furono avviati per via ordinaria, mentre i suini, di cui era prevista la macellazione «con precedenza», vennero caricati su autocarri. A Kamenka l’Intendenza del Csir fece costruire un «campo di concentramento» per bestiame in cui raccogliere gli animali sopravvissuti, ovvero 1.050 ovini, 110 bovini, 80 suini e 50 pecore[13].
Da ultimo, alle «fisiologiche» disfunzioni della logistica si aggiungevano le altrettanto immancabili sperequazioni fra reparti e zone di stanza e le vere e proprie ruberie da parte di coloro che avevano accesso alle risorse alimentari, in luoghi come depositi e magazzini militari. Vale la pena di riportare per esteso un passo particolarmente significativo dalle memorie di guerra di un reduce di Russia già appartenente alle camicie nere:
Non si può negare che, a furia di brodo lungo e tubi[14] e con le razioni che, passando dalle grandi sussistenze alle piccole e da queste ai reparti dislocati in prima linea, di prelevamento in prelevamento, di buono in buono, di mano in mano, meglio, di bocca in bocca, senza contare la scrematura per le mense ufficiali (solo ufficialmente e sui giornali abolite secondo la classica trafila della burocrazia alimentare-militare), si assottigliano e si volatilizzano, non di rado si finisce per tirare la cinghia […]. Le tabelle con le spettanze dietetiche sono di una grande, scientifica precisione; regolarmente affisse in ogni fureria, affinché quando si va a riscuotere la decade, che qua viene pagata quindicinalmente, si possa sapere quanto, al milligrammo, il governo ci passa. È tutto chiarissimo, voci e numeri, tanto di pane, tanto di pasta, tanto di grassi, tanto di carne, tanto di formaggio, tanto di marmellata, tanto di vino, tanto di cognac al giorno. Più, saltuariamente, in occasione di feste o solennità patriottiche e religiose, i cosiddetti generi di conforto. Con tutta questa buona roba sulla carta, tirate le somme, quando, una volta ogni ventiquattro ore, giunge il momento della distribuzione del rancio caldo, dalla marmitta fumante al mestolo del cuciniere e da questo alla gavetta del soldato, che già comincia a masticare con gli occhi, non travasano che i soliti quattro tubi galleggianti nel pallido brodo. Un giorno la marmellata non è arrivata, un altro giorno il formaggio è finito, il vino nei sacchi s’è perduto per strada. Ci spetterebbero poi gli arretrati. Il cognac? Mai visto. In estate si disse che veniva conservato nei depositi per l’inverno. Ora che dell’inverno siamo a cavallo, pare lo si voglia tenere per le giornate di combattimento. In autunno, per due mesi, si è mangiato il rancio scondito. Quelli che venivano dalle retrovie raccontavano di aver visto gli attendenti ingrassare scarpe e stivali degli alti ufficiali con burro tedesco in scatola[15].
Che non si trattasse di fantasie o di mero mormorio di soldati in linea è dimostrato da una relazione dello stesso comandante dell’Intendenza del Csir prima e dell’Armir poi, che si espresse in questi termini circa simili problematiche:
Per evitare i furti non c’è che un mezzo […] e cioè il controllo assiduo sull’opera del personale […]. Occorre controllare i prelevamenti nell’atto stesso in cui si compiono, controllare le derrate e gli oggetti al termine del trasporto, controllare prima di procedere alle distribuzioni. I viveri devono essere controllati nelle stesse marmitte […]. Nel corso di aviorifornimenti si verificò il fatto che derrate spedite giungevano alle truppe ridotte alla metà del peso iniziale. Ciò perché nei numerosi trapassi da uno ad altro consegnatario non si provvedeva alle necessarie verifiche […]. Le stesse sottrazioni si sono verificate nella distribuzione del sapone che, assegnato nelle quantità prescritte, è giunto talora alle truppe in quantità ridotte o non è giunto affatto[16].
In sostanza, per la truppa e per i quadri inferiori la qualità della vita in generale e dell’alimentazione in particolare peggiorava man mano che ci si avvicinava alla prima linea, come sempre accade in guerra e come avveniva anche presso i tedeschi in Urss, le cui memorie sono talora altrettanto esplicite in merito agli aspetti parassitari e predatori dei reparti di retrovia[17]. La mancanza di proteine animali e dei relativi grassi era particolarmente sentita con l’abbassarsi delle temperature, rendendo persino pericoloso il servizio in linea. I molti casi di manifesta debolezza, di prostrazione fisica, di deperimento organico e persino di astenia fra le truppe – come vedremo – vanno in parte attribuiti all’alimentazione non adeguata di cui abbiamo detto. Per ovvie ragioni, i soldati provvedevano spesso a rifornirsi di cibo e specialmente di carne rubandoli ai civili sovietici o requisendoli illegalmente, cioè al di fuori del sistema di prelevamenti autorizzato dai comandi.
Le condizioni fisiche delle truppe
I dati di cui si dispone per comprendere quale fosse lo stato di salute generale delle truppe italiane al fronte russo sono scarsi e discontinui. Com’è intuitivo, l’argomento salute finiva nei rapporti dei comandi responsabili per lo più quando le cose non marciavano nel modo giusto. Che questo sia accaduto più volte già nella prima parte della campagna di Russia, all’epoca in cui al fronte si trovava il solo Csir (circa 60.000 uomini), è già di per sé la spia di condizioni generali non ottime. Significativo è il caso della 22a Compagnia presidiaria, ente dipendente dall’Intendenza del Csir, che aveva mansioni di lavoro e di guardia a magazzini e depositi. L’unità «era stata costituita con i meno atti, in gran parte reduci dalla campagna albano-greca e dell’Africa settentrionale», tanto che «diede serie preoccupazioni sia per lo stato fisico dei suoi elementi» sia per le sue possibilità di utilizzo, in specie nelle fasi di movimento che il Csir dovette ripetutamente sostenere. Per la compagnia fu presto stabilito il «rimpatrio senza sostituzione», il che, tra l’altro, fu «oltremodo gradito» alla stessa Intendenza del Csir, non solo per lo stato fisico dei militari, ma pure, «soprattutto, per la poco buona figura che essi facevano come soldati italiani di fronte agli alleati»[18].
Preparazione del rancio in un campo di aviazione della caccia e della ricognizione italiana in Russia nell’estate 1942, Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 64, immagine 49956.
Analogamente, nel dicembre 1941, il Comando del CSIR dovette comunicare che «[la] deficiente resistenza fisica impone[va il] rimpatrio [degli] ufficiali mettendo in crisi [il] funzionamento [dei] comandi, [dei] servizi e [l’]inquadramento [dei] reparti», per cui lo stesso comando «propone[va] provvedimenti da attuare per ripianare [i] vuoti»[19]. Una relazione medica della Direzione di sanità del Csir, alla fine dell’inverno 1941-42, dichiarò un «lento e progressivo abbassamento dell’indice medio della resistenza organica delle truppe», parlando di «casi di grave deperimento organico, di nefrite, di insufficienze funzionali ed organiche del cuore, di affezioni respiratorie e specialmente di forme accertate o sospette di t[u]b[er]c[olosi], di malattie nervose: casi quindi di malattie che interessa[va]no la nutrizione generale», che risultavano «tutt’ora in fase di ascesa numerica anche in soggetti di originaria robusta costituzione, quali i bersaglieri»[20]. Presso le camicie nere presenti al fronte nel primo inverno di guerra, ad esempio, l’incidenza dell’astenia organica grave avrebbe raggiunto addirittura il 60% della forza combattente[21].
Lo stesso valeva per i complementi inviati nel febbraio 1942 al 3º Reggimento bersaglieri (parte della divisione Celere), cioè complessivamente 33 ufficiali e 1.350 uomini. Si trattava in genere di ex combattenti del fronte greco-albanese, spesso fra l’altro ospedalizzati di recente, quindi per lo più «elementi meno efficienti di quelli che erano chiamati a sostituire, cosa che del resto avviene normalmente nelle guerre di lunga durata»[22]. La situazione del reggimento, dopo mesi di continuo impiego al fronte, non era delle migliori e tendeva a peggiorare con l’inserimento in linea di elementi freschi ma in genere inesperti, in tal caso pure fisicamente inefficienti. Un caso persino peggiore si presentò presso l’altro Reggimento bersaglieri della Celere, vale a dire il 6°. Stando al capo del Servizio sanitario reggimentale, oltre un terzo della forza combattente era soggetta a varie patologie fisiche più o meno gravi e invalidanti come ulcere, disturbi gastroenterici, problemi dentali, ernie, varicoceli e stato di estrema prostrazione fisica, in parte aggravate dalla durezza dei combattimenti e della vita al fronte, ma più spesso preesistenti all’invio dei reparti dall’Italia.
Stupisce lo stato di salute generale dei reparti, qui rilevato al 19 agosto 1942, che poteva solo in una certa misura attribuirsi al ciclo operativo appena concluso. Le patologie e i severi disturbi di cui sopra, infatti, erano stati rilevati già in precedenza, tanto che vi erano casi di militari addirittura prossimi al congedo per motivi di salute. Ancor più sorprendente è il fatto che ai reparti di quella che poteva definirsi una delle unità di punta del Csir prima e di tutta l’Armir poi fossero stati destinati complementi anch’essi fisicamente provati: fra i 260 totali figuravano 26 feriti del fronte greco, 24 ex congelati e 13 ex malarici[23]. Non è un caso che un ufficiale del reggimento, egli stesso reduce di Russia, abbia in seguito definito tali complementi semplicemente «una miseria»[24]. Per inciso, i casi di malaria recidiva, «probabilmente contratta prima della partenza dall’Italia», non erano rari: se ne contarono 421 in 5 mesi, fra l’arrivo in Urss dell’Armir e la metà del dicembre 1942[25].
I bersaglieri in Russia hanno un’intensa citazione nelle relazioni a carattere medico, non solo perché sicuramente più malconci di altri reparti, ma anche perché evidentemente oggetto di maggiori attenzioni da parte dei propri comandi. Nell’estate 1942, secondo l’Ufficio sanità della Divisione Celere, il 60-70% dei bersaglieri dei due Reggimenti 3° e 6° presentava «note evidenti di deperimento organico», che raggiungevano un picco del 95% nei Battaglioni VI, XIII e XX, con «deperimento organico di grado elevato» reso evidente da «pannicolo adiposo molto scarso» e «muscolatura fracida». Lo stesso numero di bersaglieri, cioè circa due su tre, era affetto da «esaurimento nervoso soprattutto del tipo depressivo», con tre ufficiali del XXV Battaglione e uno del XVIII ricoverati per esaurimento nervoso (di cui due colpiti da «astenia nervosa»), più un caso di alienazione mentale nel XIX Battaglione. Almeno per quanto concerne il 6° Reggimento, si trattava in parte sicuramente delle conseguenze del duro ciclo operativo del luglio e agosto di quell’anno.
Questi bersaglieri, sempre in una percentuale fra il 60 e il 70, soffrirono a più riprese di enterocolite recidivante, la quale alla lunga, assieme alle fatiche sopportate in quello stesso ciclo operativo, allo stress emotivo e all’alimentazione insufficiente e inadeguata, produsse il grave e diffuso deperimento organico di cui sopra. La pediculosi, alquanto diffusa un po’ fra tutti i reparti, raggiungeva fra i bersaglieri in linea il 100% della forza, mentre le gengiviti, dovute principalmente all’avitaminosi, colpivano il 30-40% degli effettivi. In sostanza, lo stato di salute generale della truppa appariva «veramente preoccupante», tanto che solo un rancio vario, «sempre caldo» e «più abbondante» avrebbe potuto almeno in parte migliorare la situazione, unitamente alla «distribuzione giornaliera di viveri di conforto ad alto valore energetico», come marmellata e cioccolata. In caso contrario, le truppe della Divisione Celere si sarebbero ulteriormente ammalate «in gran numero» al sopraggiungere dei primi freddi[26].
Preparazione del pane in una tenda da campo nell’estate 1942, Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 64, immagine 49766.
Un altro caso sul quale si dispone di significative informazioni è quello della Divisione Cuneense, parte del Corpo d’armata alpino, che venne approntata in patria nella primavera 1942 e che giunse al fronte russo nell’estate seguente. Questo scriveva qualche anno dopo la guerra un ufficiale del Comando della Cuneense circa l’approntamento in patria della grande unità:
I reparti furono ricostituiti col personale migliore, scelto tra quello che già apparteneva ai reparti stessi e quello che esisteva presso i centri di mobilitazione. Nonostante questo lavoro di selezione degli uomini, buona parte di essi risultò di non possedere i particolari requisiti di costituzione fisica e di robustezza stabiliti da una circolare del Ministero della Guerra (giunta in quel tempo alla divisione) per il personale che doveva essere inviato al fronte russo. L’apposita visita medica effettuata presso l’ospedale militare di Alessandria (per gli ufficiali) e presso i reparti (per i sottufficiali e per la truppa) mise subito in chiara evidenza che, se la disposizione ministeriale fosse stata applicata con il voluto rigore, gran parte del personale inquadrato nei reparti della divisione avrebbe dovuto essere dichiarato non idoneo al fronte russo. Fu perciò necessario tenere conto della disposizione stessa solamente nei casi di manifesta insufficienza fisica e dichiarare idonei al fronte russo tutti i rimanenti militari[27].
La relazione ufficiale stilata in merito dal generale comandante la Divisione Cuneense al fronte russo, Emilio Battisti, afferma in modo esplicito lo stesso concetto: «i criteri della circolare militare» della primavera 1942, con cui si indicavano stringenti parametri per determinare l’idoneità o meno al fronte russo dei militari della Cuneense, «furono, di ordine superiore, abbandonati». Drasticamente, Nuto Revelli ne conclude che, «insomma, furono tutti considerati abili al fronte»[28].
In conclusione, l’alimentazione povera e sbilanciata in uso presso una parte non piccola dei reparti al fronte russo produsse già prima del secondo inverno di guerra uno stato di prostrazione fisica diffuso. La preminenza delle calorie provenienti dai carboidrati permetteva (anche a lungo) l’attività fisica dei soldati, dalle marce al combattimento, ma questo, combinato con uno scarso apporto di proteine animali, generava il deperimento generale dell’organismo. Si tratta di un dato di cui tenere conto in specie per l’inverno 1942-43, quando una parte consistente dell’Armir, dopo intensi giorni di combattimento, affrontò una lunga ritirata alla quale, almeno per una certa aliquota dei soldati, fece seguito la prigionia in mano sovietica. Gli appartenenti ai reparti meno e peggio alimentati, ovviamente, ebbero minori probabilità di sopravvivere a quelle dure prove. Ciò trova conferma nelle vicende dei tedeschi che combatterono e che vennero catturati a Stalingrado, presso i quali il tasso di mortalità dopo la cattura e in prigionia fu incomparabilmente superiore che negli altri reparti della Wehrmacht, presso i quali l’alimentazione era stata comprensibilmente più regolare.
[1] Costantino De Franceschi-Giorgio de Vecchi, I servizi logistici delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (d’ora in poi Ussme), Roma 1975, pp. 43-77.
[2] Giorgio Rochat, Le truppe italiane in Russia (1941-1943), in «Storia militare», anno XI (2003), n. 115, pp. 39-40.
[3] Vedi Fabrizio Carloni, L’Intendenza italiana in Russia (luglio 1941-maggio 1943), Mursia, Milano 2023.
[4] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma (d’ora in poi Aussme), L/14, busta 88, fascicolo 6: Norme di igiene e profilassi per il Corpo di spedizione italiano in Russia (luglio 1941), p. 16.
[5] Raffaello Pannacci, L’occupazione italiana in Urss. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941-43), Carocci, Roma 2023, pp. 135-136.
[6] Thomas Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 99-101.
[7] Alfredo Terrone, Appunti per una storia del rancio e dell’alimentazione militare, in «Memorie storiche militari 1981», Ussme, Roma 1982, p. 428.
[8] Testimonianza di Mauro Taccini, sottotenente dell’89° Reggimento fanteria (Divisione Cosseria), in Giulio Bedeschi (a cura di), Fronte russo: c’ero anch’io, Mursia, Milano 1983, Volume I, p. 540.
[9] Loris Lenzi, Dal Dnieper al Don. La 63a Legione CC.NN. «Tagliamento» nella campagna di Russia, Volpe, Roma 1972 (1a edizione 1968), p. 61.
[10] Lucio Lami, Isbuscenskij, l’ultima carica. Il Savoia Cavalleria nella campagna di Russia (1941-1942), Mursia, Milano 2011 (1a edizione 1970), p. 152.
[11] Archivio centrale dello Stato, Roma (d’ora in poi Acs), Tribunale militare del Csir, Fascicoli processuali, busta 13, fascicolo 307.
[12] Acs, Tribunale Militare del Csir, Fascicoli processuali, busta 17, fascicolo 422: Ispezione al parco buoi di Novosilica, tenente Muzio Muzzi-Ruffignani [all’Intendenza del Csir], 22 ottobre 1941; ivi, fascicolo 422: Processo verbale, sottotenente Sergio Valdora al Tribunale militare del Csir, 30 maggio 1942, p. 8.
[13] Aussme, N/3, busta 548, Diario storico dell’Intendenza del Csir, novembre-dicembre 1941, Allegato 282: Costituzione campo di concentramento bestiame di Kamenka, tenente colonnello Luigi De Micheli all’Ufficio veterinaria e all’Ufficio commissariato del Csir, 6 novembre 1941; ivi, Allegato 308: Costituzione campo di concentramento bestiame Kamenka, capitano Francesco Marchetti Dori all’Intendenza del Csir, 10 novembre 1941.
[14] I «tubi», noti anche come «ditalini» o «maccheroni corti», erano la caratteristica pasta militare di forma tubolare usata per arricchire di carboidrati le minestre vegetali. Vedi Paolo Monelli, Naja parla, Longanesi, Milano 1947, p. 146.
[15] Fidia Gambetti, Cartoline in franchigia, Vecchiarelli, Roma 1993, pp. 117-118.
[16] Aussme, N/3, busta 570: Promemoria relativo al funzionamento dei servizi in Russia, generale Carlo Biglino, 15 giugno 1942, pp. 18-19.
[17] Fritz Wöss, Cani, volete vivere in eterno?, Baldini & Castoldi, Milano 1960, pp. 35-36.
[18] Aussme, L/13, busta 200-bis, fascicolo «Relazione finale»: Relazione sull’attività svolta nel campo dei servizi dal 10 luglio 1941 al 31 marzo 1943 (Parte III), non firmato né datato [ma generale Carlo Biglino, primavera 1943], pp. 4-5.
[19] Antonello Biagini-Fernando Frattolillo (a cura di), Diario storico del Comando supremo, Ussme, Roma 1986-2002, Volume V, Tomo I, pp. 759-760.
[20] Aussme, N/3, busta 570, Diario storico dell’Intendenza del Csir, marzo-aprile 1942, Allegato 118: Situazione sanitaria presso il Csir dal 1° al 31 marzo 1942, colonnello medico Francesco Caldarola al Ministero della Guerra, 16 aprile 1942, p. 5.
[21] L. Lenzi, Dal Dnieper al Don, cit., pp. 244-245, che fa riferimento a un rapporto del sottotenente medico Nicola Pappalepore, divulgato presumibilmente in data 14/15 gennaio 1942.
[22] Francesco Valori, Gli Italiani in Russia. La campagna dello Csir e dell’Armir, Bietti, Milano 1967, pp. 159-160.
[23] Costantino De Franceschi-Giorgio de Vecchi-Fabio Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Ussme, Roma 1993 (1a edizione 1977), pp. 662-663.
[24] Aldo Giambartolomei, Campagna di Russia 1942-1943. La guerra del 6° Reggimento bersaglieri, in «Memorie storiche militari 1983», Ussme, Roma 1984, p. 707.
[25] C. De Franceschi-G. de Vecchi, I servizi logistici delle unità italiane al fronte russo, cit., p. 283.
[26] Aussme, N/6, busta 1086, Diario storico della Divisione Celere, agosto-settembre 1942, Allegato 5 (Documento 20): Relazione sulle condizioni igienico-sanitarie delle truppe, maggiore medico Pietro Negri al Comando della Divisione Celere, 15 settembre 1942, pp. 1-2.
[27] Aussme, N/1-11, busta 1126, fascicolo 46: L’approntamento della Divisione «Cuneense» nella zona di Cuneo (aprile-luglio 1942), maggiore Walter Berardi, 31 marzo 1949, p. 2.
[28] Nuto Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Einaudi, Torino 2003, pp. 81-82.