Un rapporto complicato: italiani e tedeschi dopo la battaglia sul Don

Introduzione

Nel corso dei decenni i rapporti fra soldati del Regio Esercito e della Wehrmacht al fronte russo sono stati oggetto di studio da parte di diversi storici, in specie stranieri, che si sono concentrati su più di un aspetto della questione. Alcuni hanno parlato delle dinamiche fra la Wehrmacht e i vari eserciti «satellite» nel conflitto in generale, fronte orientale incluso[1]. Altri hanno discusso dei rapporti fra Germania e Italia in Urss nell’ambito dell’alleanza italo-tedesca, sia dal lato propagandistico che da quello strettamente militare[2]. Alcuni hanno inquadrato precisamente quei rapporti nel contesto della comune guerra contro l’Unione Sovietica, descrivendone pure il declino nella parte terminale della campagna[3]. Altri ancora hanno concentrato la propria attenzione sull’opinione da parte tedesca circa comandi e truppe italiane in Russia, con un focus particolare sul loro rendimento sul campo[4]. Thomas Schlemmer, ancora di recente, ha sviscerato diversi aspetti dei rapporti fra italiani e tedeschi, ponendo in luce criticità e problemi di quell’alleanza al fronte russo, ma pure tratti e interessi comuni poi generalmente negati o rimossi dal discorso pubblico del dopoguerra[5].

Nonostante ciò, non tutto è ancora stato detto sul tema in oggetto, in specie per quanto concerne la situazione dei rapporti fra italiani e tedeschi nella parte finale della campagna, segnatamente dopo la nota ritirata dal fiume Don. Questo breve scritto non pretende di esaurire l’argomento, ma solo di far luce su alcuni momenti poco o per nulla noti degli ultimi mesi della campagna di Russia, già di per sé meno indagati e meno conosciuti del resto di quella pagina di storia italiana. Esso intende anche essere un ponte ideale e al contempo una chiave di lettura – per quanto parziale – delle vicende occorse nei mesi successivi alla campagna di Russia in Italia, un paese dove già non molto dopo l’8 settembre 1943 lo scrittore e critico culturale Gerhard Nebel poteva affermare con decisione:

La propaganda politica [di entrambi i paesi] non è riuscita a raggiungere una cosa: non ha avvicinato i tedeschi agli italiani e neppure questi a quelli. La politica dell’Asse, che sulla base di contatti ad ampio raggio voleva avvicinare le due nazioni, ha ottenuto il risultato inaspettato di portare i due popoli a un tale fastidio e disgusto reciproco, come raramente era successo nella storia europea[6].

Un quadro generale

Fare una summa dei rapporti fra i soldati italiani e i loro camerati germanici durante la guerra al fronte russo significa necessariamente ripercorrere le tappe del deterioramento di una partnership problematica sin dal principio, ma che fino all’autunno 1942 non aveva funzionato poi così male. In estrema sintesi, le relazioni fra comandi e truppe dell’uno e dell’altro esercito erano non di rado viziate da incomprensioni linguistiche e culturali e soprattutto da reciproci pregiudizi, che in certi casi avevano più che una base d’appoggio nella realtà fattuale. Un ufficiale del Regio Esercito, dopo la fine della campagna, scrisse al ministro della Cultura popolare a Roma che i rapporti fra italiani e tedeschi erano stati «viziati da incomprensione psicologica, da disparità di armamento, di equipaggiamento, di metodo, di comando» e che «in generale mancava da entrambe le parti la buona disposizione a capirsi e quindi la buona volontà di smussare gli angoli»[7].

Comportamenti e caratteristiche – per così dire – intrinseci dei tedeschi sono stati abbondantemente descritti dalle memorie e dalla pubblicistica militare italiane, interessate ad un paragone in realtà unilaterale e senza possibilità di appello. Comandi e truppa del Regio Esercito, comunque, ci misero chiaramente del proprio, considerando la letteratura in materia[8] e avendo a mente, fra le altre cose, note confidenziali come questa:

Il Comando dell’ex Corpo di spedizione italiano in Russia ed i Comandi delle dipendenti divisioni (Torino, Pasubio e Celere) sono costretti, per ovvi motivi di ospitalità, di convenienza e di politica, ad invitare giornalmente a pranzo ufficiali tedeschi (che a loro volta sono sempre larghi nel contraccambiare). Il Ministero della Guerra-Gabinetto, con circ.[olare] N° 170955 del 13/8/[1]942, ha reso praticamente proibitiva tale elementare e politica forma di cameratismo, assolutamente necessaria in quel particolare ambiente, negando l’approvazione alle liste di spese presentate dai nostri comandi. In tale modo, per risparmiare una somma assai modesta, ci esponiamo di fare di fronte all’Esercito tedesco (che a queste cose è sensibilissimo) delle figure estremamente tristi, in quanto i comandi italiani hanno detto che, di fronte ad una simile superiore incomprensione, anche se venisse il Fuhrer in persona alla mensa, lo farebbero pagare[9].

Al di là di questo, i rapporti fra italiani e tedeschi in Russia si mantennero buoni fintanto che i secondi poterono avere in pugno le redini della guerra e conseguire risultati bellici utili, mentre da Stalingrado in poi la Wehrmacht ebbe enormi problemi operativi. La stessa immagine di invincibilità che le truppe tedesche emanavano si infranse agli occhi degli eserciti «saltellite» (italiani, rumeni, ungheresi) e l’iniziativa prese a scivolare gradualmente nelle mani dei sovietici.

Battaglia sul Don e ritirata

Per le truppe dell’Armir il momento cruciale in questo senso arrivò nel dicembre 1942, quando ebbe luogo quella che la pubblicistica militare ha denominato «seconda battaglia difensiva del Don». Fra il 16 e il 17 di quel mese l’Armata rossa sfondò le linee italiane e penetrò nelle retrovie, seminandovi il panico. I comandi tedeschi sul campo addossarono immediatamente la colpa del cedimento del fronte alle unità italiane interessate dall’attacco. Che alcuni reparti del Regio Esercito avessero perso la testa appare chiaro da una lunga serie di elementi di cui sarebbe lungo discutere. Al di là di questo, il generale comandante il Nucleo di collegamento tedesco presso l’Armir esagerò lamentandosi in modo risentito che del fatto che cinque divisioni italiane «scappassero fino al Mar Nero»[10]. Fra i vertici politico-militari a Berlino, di riflesso, corsero voci ugualmente esagerate, che portarono un diplomatico tedesco a dichiarare ad un suo collega del Ministero degli Affari esteri italiano che i reparti del Regio Esercito non avevano subìto alcuna perdita nella battaglia sul Don, per il semplice fatto che se l’erano data a gambe[11].

Il quadro generale era chiaramente esagerato, ma appariva «molto attendibile la supposizione che tale stato d’animo» ostile verso gli italiani, ai quali durante il ripiegamento venne con insistenza attribuita la responsabilità del crollo del fronte sul Don, «fosse mantenuto artificialmente per elevare il morale e la capacità di resistenza delle truppe germaniche». Se così non fosse andata, insomma, le unità tedesche, nel loro complesso, avrebbero accusato un colpo assai più duro, come spiegò il generale Francesco Zingales, comandante del XXXV Corpo d’armata (già Csir)[12]. La sua tesi è avvalorata dalle voci corse dopo lo sfondamento sovietico attorno a Stalingrado nel novembre precedente, quando le responsabilità furono addossate alle unità che avevano sostenuto il primo urto dell’Armata rossa, vale a dire le truppe rumene delle Armate 3ª e 4ª, laddove in realtà anche divisioni e corpi d’armata della Wehrmacht avevano ricevuto un duro colpo[13]. Sta di fatto che, mentre i vertici politico-militari italo-tedeschi vennero a patti con la situazione disastrosa che si era creata, al fronte nessun reale accomodamento fu più possibile e le tensioni permasero fino alla fine.

I tedeschi continuarono a ritenere gli «incapaci» italiani responsabili della sconfitta e questi ultimi covarono un profondo risentimento nei confronti dei primi, esacerbato dalla diffusa opinione che la Wehrmacht, al fine di salvare e/o di risparmiare le proprie armate, avesse sacrificato quelle dei propri alleati, a partire dall’Armata italiana in Russia. Anche in questo caso si era nel campo delle dicerie autoprotettive, poiché «i comandi tedeschi – ricorda Giorgio Rochat – non esitarono a sacrificare le loro truppe con gli stessi ordini di resistenza a oltranza che diedero agli alleati italiani, romeni e ungheresi»[14]. Fatti del genere, che avevano un’indubbia base di verità, sono divenuti una sorta di patrimonio comune anche oltre la loro reale incidenza. Attribuire la mancanza di cameratismo agli alleati, infatti, era pure un modo per non riflettere sul crollo della solidarietà fra gli stessi reparti italiani, ormai invischiati in blocco nel classico scenario da homo homini lupus[15].

Episodi di violenza ai danni dei tedeschi, come uccisioni a sangue freddo durante la ritirata o al momento di alloggiare nei villaggi, non sono rari nella diaristica e nella memorialistica italiane, di norma giustificati al momento o a posteriori come vendette per dei torti subìti[16]. Nota è anche la morte del comandante del XXIV Panzerkorps, generale Karl Eibl, quasi certamente ucciso in modo intenzionale da una granata lanciata da alpini italiani durante la comune ritirata[17]. Meno discussi sono episodi non secondari avvenuti allora e pure in seguito di tempo, che denotano lo scadere dei rapporti non solo fra truppe italiane e tedesche che avevano vissuto fianco a fianco durante la ritirata, ma in generale fra i due eserciti e i due popoli in oggetto, a prescindere dagli eventi contingenti.

Regia Questura di Trieste


Oggetto: Rientro dalla Russia di militari.

27 marzo 1943
al Ministero dell’Interno, Direzione generale di P.[ubblica] S.[icurezza]

Gomel e il riordinamento

Uno dei motivi che acuì questa «crisi relazionale» fu la questione del riordinamento e dell’alloggiamento delle truppe superstiti giunte dal Don. Nei primi giorni del gennaio 1943, appunto, iniziò il sommario riordinamento dei reparti italiani nel frattempo rientrati nelle linee italo-tedesche. Queste operazioni, già di per sé lunghe e tormentate, vennero a più riprese interrotte dal Comando del Gruppo d’armate B (da cui l’Armir dipendeva), costretto a spostare più volte la zona di radunata degli italiani in relazione alle esigenze operative delle unità combattenti e ai progressi nemici nell’avanzata verso ovest. Entro l’inizio del febbraio seguente la destinazione finale delle truppe italiane fu spostata di circa 1000 km verso occidente, fino a Gomel, in Bielorussia. I convogli promessi dai tedeschi per il trasporto della truppa tardarono tanto a materializzarsi che i soldati italiani, a causa del possibile sopraggiungere del nemico sui luoghi delle varie tappe intermedie, furono costretti a spostarsi a piedi[18].

Il trasferimento dei resti dell’Armir a Gomel e verso le retrovie in generale fu lento, penoso e assistito dalle autorità tedesche solo parzialmente e in modo discontinuo. La gran parte delle unità dovette muovere per via ordinaria, fatto per cui il Comando d’armata protestò ripetutamente: «Mentre i tedeschi sgomberano anche i materiali non indispensabili caricando su autocarri vecchie masserizie, le nostre truppe non hanno carburante sufficiente per lo sgombero dei feriti e dei materiali preziosi»[19]. Nuto Revelli, ufficiale subalterno degli alpini, ricorda come non venissero concessi treni ai reparti italiani in movimento verso le retrovie, mentre i comandi tedeschi facevano caricare sui pianali persino le slitte usate durante il ripiegamento[20]. A detta del comandante dell’Armir, generale Italo Gariboldi, il comportamento dei tedeschi si era ormai fatto «esasperante»[21]. La stessa destinazione di Gomel fu a più riprese contestata dai comandi italiani e dall’addetto militare italiano a Berlino, sia per l’ulteriore balzo indietro imposto a soldati più che provati sia per la zona in sé, che aveva patito pesanti distruzioni e che era attrezzata per i numerosi reparti tedeschi di stanza, qui «sistemati con larghezza», il che mostrava l’ulteriore disparità di trattamento con gli italiani[22].

Una relazione, facendo presente che i dormitori per i reparti italiani in zona erano indecorosi, precisava: «Non c’è tedesco che non dorma in una cuccetta di legno»[23]. A rendere Gomel inadatta al riordinamento di unità provate e male o per nulla armate era soprattutto la presenza di numerose bande partigiane sovietiche. Questo stato di cose, fra l’altro, rendeva in partenza «inevitabile l’impiego di reparti del II C.[orpo d’]A.[rmata italiano] per la sicurezza della zona di riordinamento». I vertici romani e l’addetto militare italiano a Berlino tornarono più volte sulla questione per tutto il marzo 1943, senza ottenere alcunché dall’Alto comando tedesco[24]. A parte la presenza in zona dei reparti germanici e l’attività partigiana, poi, la città subiva continue incursioni da parte delle squadriglie sovietiche da caccia e soprattutto da bombardamento: se ne ebbero a ripetizione proprio in corrispondenza delle rinnovate rimostranze italiane, nei giorni 10, 18, 20, 21, 22 e 24 marzo[25].

Problemi anche altrove

In quelle stesse settimane vi furono diversi episodi di attrito fra truppe della Wehrmacht e del Regio Esercito. Il 7 marzo 1943, ad esempio, si verificarono incidenti fra tedeschi e italiani alla «Casa del soldato germanico» di Kiev. Il 29 marzo seguente il Comando supremo italiano, in seguito a sommaria indagine, segnalò il comportamento scorretto tenuto in quell’occasione da alcuni ufficiali tedeschi, fra cui un generale, «perché ne [fosse] data conoscenza» all’Alto comando germanico «per le disposizioni del caso»[26]. Anche gli elementi della Regia Aeronautica ebbero scontri verbali e colluttazioni coi membri della Luftwaffe e della Kriegsmarine, quando i reparti aeronautici italiani si stanziarono presso Odessa, al seguito del Comando Aviazione del fronte orientale, che qui si trasferì da Vorošilovgrad verso la fine del febbraio 1943. Sono noti episodi di violenza reciproca anche presso la stazione di Kharkov, durante il transito delle unità italiane in via di rimpatrio[27]. Il comandante dell’artiglieria d’Armata, addirittura, in quei giorni scrisse al capo di Stato maggiore del Regio Esercito una lettera in cui affermava: «Abbiamo conti da regolare: non soltanto con i russi»[28].

Per parte propria, i superstiti dell’Armir diedero luogo a disordini nel tragitto del rimpatrio, che prevedeva – come all’andata – il passaggio attraverso i territori del Terzo Reich. Tali contrasti con soldati e civili tedeschi e austriaci apparivano in alcun casi voluti e razionalmente programmati. Parlando della fine della campagna di Russia, fra l’altro, questi soldati contribuivano anche alla diffusione di «inopportune notizie sugli avvenimenti del fronte russo»[29]. In altri casi il trattamento ricevuto dagli italiani in quegli stessi territori aggravò ulteriormente le già misere condizioni in cui rientravano in patria. Il 2 febbraio 1943 giunsero a Bolzano «12 carri merci, non comunicanti, agganciati a un treno ospedale», con a bordo 386 soldati provenienti dal fronte orientale. Al fascio di combattimento locale i soldati chiesero che i soliti generi di conforto, come vino e tabacco, venissero sostituiti con cibarie di qualsiasi tipo: da Vienna al Brennero, infatti, era mancato loro qualsiasi tipo di assistenza. Il fascio locale dovette racimolare del pane nei negozi del Brennero al fine di portarlo ai militari[30].

Sempre in questo contesto e nella medesima ottica di ormai aperta contrapposizione va inquadrata la vicenda del colonnello Ugo Almici, capo di stato maggiore del II Corpo d’armata al fronte russo. Già il 19 agosto 1942 un rapporto del Nucleo di collegamento tedesco presso il II Corpo d’armata italiano l’aveva segnalato come elemento diffidente e poco incline alla collaborazione. In un’analoga nota informativa del 15 marzo 1943, Almici fu definitivamente giudicato inadatto ad ogni tipo di rapporto coi tedeschi[31]. Il 26 marzo il Comando supremo richiese dal Comando del II Corpo d’armata «precisazioni circa [la] comunicazione» dell’Alto Comando tedesco a Berlino «che [le] autorità militari tedesche incontrerebbero serie difficoltà nei rapporti di servizio con il col.[onnello] Almici». Appena 5 giorni dopo, il Comando supremo ordinò allo Stato maggiore del Regio Esercito di sostituire Almici e di farlo rimpatriare[32].

L’inchiesta ufficiale

È proprio in quelle stesse settimane, in un contesto del genere, che prese corpo un’iniziativa italiana indicativa di quanto si fossero deteriorati i rapporti con l’alleato. Il 14 marzo 1943 il generale Vittorio Ambrosio, capo dello Stato maggiore generale (che aveva da poco sostituito Ugo Cavallero), richiese dal generale Gariboldi «una completa [ed] esauriente relazione relativa al contegno dei nostri alleati tedeschi all’inizio e durante il ripiegamento, in merito a casi di mancata cooperazione durante [i] combattimenti, a negata assistenza a nostre truppe in ritirata ed infine ad arbitraria appropriazione di nostri automezzi o di depositi di rifornimento». In aggiunta, tre giorni dopo Ambrosio ordinò al generale Ezio Rosi, capo dello Stato maggiore del Regio Esercito, «di fare interrogare in via riservata e opportuna gli ufficiali rimpatriati dalla Russia e degenti in luoghi di cure per ferite o malattie riportate nell’ultima fase operativa, allo scopo di raccogliere dichiarazioni sul trattamento usato da parte germanica alle truppe dell’8a Armata»[33].

Questo lavoro fu effettivamente svolto da tre alti ufficiali in varie sedi di degenza italiane nell’aprile seguente. Il campione di testimoni preso in esame era costituito per lo più da sottotenenti, da tenenti e da qualche capitano (rarissimi gli ufficiali di grado più elevato), tanto che non fu ritenuto particolarmente soddisfacente in relazione soprattutto alle scarse notizie di carattere operativo fornite dai testimoni[34]. Gli stessi comandi in sottordine dell’Armir, ancora al fronte, raccolsero notizie circa episodi di mancata cooperazione e di violenza da parte germanica durante la ritirata[35]. Parallelamente a tutto ciò, inoltre, il Ministero della Cultura popolare si premurò anche di chiedere a Dino Alfieri, ambasciatore italiano a Berlino, di verificare la notizia in base alla quale «cinegiornalisti tedeschi avrebbero ripreso cinematograficamente scene [di] disordini che sarebbero accaduti durante [il] ripiegamento [dell’]Armir»[36].

I soldati e i loro racconti

Per la massa dei militari italiani al fronte, ormai in zone più o meno al riparo dall’Armata rossa, i tedeschi erano diventati i nuovi nemici. L’ordine del giorno del Comando d’armata dell’1 marzo 1943, che ammoniva i superstiti dell’Armir chiedendo loro «ricordate e raccontate», era in realtà un implicito invito a non dimenticare i torti subìti per mano dell’alleato germanico. Esso venne fatto circolare parallelamente all’ordine del giorno del duce, pubblicato lo stesso 1 marzo, che a quella fratellanza d’armi ormai in frantumi si rifaceva ancora una volta[37]. Durante una messa da campo fu letto un messaggio di Gariboldi che doveva in teoria stigmatizzare le fraternizzazioni fra civili e soldati italiani e che ricordava quindi, «con un tono che non era parso privo di ironia, […] che bisognava “odiare il nemico”». Il messaggio, a ben vedere, alludeva in modo neanche tanto sottile ai nuovi nemici del soldato italiano e difatti non mancò di suscitare «ilarità ed esclamazioni divertite anche tra gli ufficiali»[38].

Nel frattempo i soldati al fronte e quelli già rimpatriati – l’abbiamo in parte visto – non si fecero problemi a comunicare a casa notizie sulla guerra che le autorità politico-militari giudicavano non a torto sconvenienti, con effetti incalcolabili sulla percezione che la popolazione italiana avrebbe avuto dei tedeschi, vale a dire di coloro che stavano per diventare gli occupanti della penisola. La propaganda politico-militare invitava il reduce rientrante alla massima prudenza («sii forte e sereno nei discorsi»[39]), prevedibilmente con scarso successo. Questo spiegava un militare italiano ormai rimpatriato (probabilmente un sottufficiale):

Con i tedeschi non si può andare d’accordo […]. Accadono risse e cinque soldati del mio reparto contro dieci soldati tedeschi ne hanno accoltellati tre, ed io ho dovuto accusare altri tre soldati tedeschi per salvare i miei. I soldati tedeschi fanno schifo perché sono privi di gelosia e perciò non capiscono gli italiani; credono che noi possiamo tollerare di essere cornuti come sono sempre disposti ad esserlo loro[40].

Un soldato dei trasporti faceva sapere: «In questi giorni c’è molto nero con gli alleati che credi sono quello che sono, c’è di buono che noi abbiamo carta libera in tutto e per tutto e delle autorizzazioni contro di loro anche gravi»[41]. Tali autorizzazioni ci sono note da altre testimonianze, come quella di una camicia nera del Gruppo «Valle Scrivia» relativa alla ritirata:

Arrivammo a Millerovo nella notte; il paese era tutto in fiamme […]. Per dormire dovemmo fare i conti con i tedeschi, che avevano occupato tutte le isbe: anche se eravamo loro alleati, non ci facevano entrare. Il capitano ci diede l’ordine di sparare se trovavamo resistenza[42].

Da ultimo, scriveva compiaciuto un fante della Divisione Cosseria:

Qualche volta che siamo entrati in qualche località dove già si trovavano loro mai ci volevano fare entrare nelle casette dei russi […]. Allora liti, qualche pugno e la faccenda era risolta a nostro favore […]. Poi dopo i camerati tedeschi, dopo aver ricevuto qualche pugno bene assestato, erano capaci di offrirci il burro, [la] marmellata ecc. Noi non si rifiutava mai, anzi ci facevamo un dovere di fare una pulizia accurata delle loro provviste[43].

Queste note anticipano i toni di molta memorialistica post-bellica dei reduci di Russia, nella quale manca in genere l’aspetto della reciprocità della violenza, di norma presentata come prerogativa dei tedeschi «cattivi». Si tratta di una delle tante rimozioni di argomenti scabrosi dalla memoria collettiva che affollano i libri di chi fece quella campagna, dai quali il soldato italiano esce di norma come vittima. Anzi, il trattamento ricevuto al fronte russo dai tedeschi, ripulito della reciprocità, fu un fondamentale elemento di aggregazione e di ricompattazione per uomini che avevano vissuto esperienze «limite» come la ritirata e che avevano spesso il morale comprensibilmente a terra. Quello «stato d’animo», inoltre, «non poteva non trasferirsi anche al fronte interno», creando un sentimento collettivo in base al quale «prima ancora dell’8 settembre del 1943 per molti italiani i tedeschi avevano già tradito»[44].

Comando 8ª Armata
Stato maggiore, Ufficio operazioni


Ordine del giorno d’armata n. 5

Fronte russo, 1° marzo 1943-XXI
Ai valorosi dell’8ª Armata che rimpatriano


[1] Josef Schröder, La Germania e i suoi alleati nella Seconda guerra mondiale. Un contributo sulla politica degli obiettivi bellici di Hitler, in «Storia contemporanea», anno VII (1976), n. 4, pp. 751-781.

[2] Vedi gli spunti forniti in questo senso dai saggi di Enzo Collotti, di Olaf Groehler e di Wolfgang Schumann in Enzo Collotti e Guido Quazza (a cura di), Gli Italiani sul fronte russo, De Donato, Bari 1982, pp. 3-139.

[3] Jürgen Förster, Il ruolo dell’8ª Armata italiana dal punto di vista tedesco, ivi, pp. 229-259.

[4] Bastian Matteo Scianna, The Italian War on the Eastern Front (1941-1943): Operations, Myths and Memories, Palgrave Macmillan, London 2019, pp. 189-227.

[5] Thomas Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari 2009, passim.

[6] Gerhard Nebel, Auf ausonischer Erde. Italienisches Tagebuch 1943-44, Marées, Wuppertal 1949, p. 9, citato in Jens Petersen, L’organizzazione della propaganda tedesca in Italia (1939-1943), in «Annali della Fondazione Luigi Micheletti», anno V (1990-91), p. 704.

[7] Archivio centrale dello Stato, Roma (d’ora in poi Acs), Ministero della Cultura popolare (Minculpop), Gabinetto, busta 140, fascicolo 932, sottofascicolo «Nucleo corrispondenti di guerra presso l’Armir»: lettera del 13 aprile 1943 del sottotenente Armando De Pedys a Gaetano Polverelli.

[8] Vedi soprattutto T. Schlemmer, Invasori, non vittime, cit., pp. 106-120.

[9] Acs, Ministero dell’Interno (Min), Direzione generale di Pubblica sicurezza (Dgps), Divisione Polizia politica (Dpp), fascicoli per materia, busta 215, fascicolo 2: nota fiduciaria datata Verona, 31 agosto 1942.

[10] T. Schlemmer, Invasori, non vittime, cit., p. 134.

[11] Galeazzo Ciano (a cura di Renzo De Felice), Diario 1937-1943, Bur, Milano 2010, p. 678.

[12] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma (Aussme), M/3, busta 20, fascicolo 7: Promemoria per il sottocapo di S.[tato] M.[aggiore] per le operazioni, 1 giugno 1943, p. 5 (citato anche in Maria Teresa Giusti, La campagna italiana di Russia 1941-1943, Il Mulino, Bologna 2016, p. 234).

[13] Antony Beevor, Stalingrado. La battaglia che segnò la svolta della seconda guerra mondiale, Bur, Milano 2008, pp. 276-278, 311-312.

[14] Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005, p. 394.

[15] T. Schlemmer, Invasori, non vittime, cit., pp. 150-151.

[16] Alberico Lo Faso di Serradifalco, 5 mesi sul Don. Ricordi della campagna di Russia di un ufficiale della Sforzesca, Roberto Chiaramonte, Collegno 2003, pp. 141-142; Odoardo Ascari, La lunga marcia degli alpini nell’inferno russo (1942-43), in «Nuova storia contemporanea», anno VII (2003), n. 5, pp. 73-74.

[17] Alessandro Massignani, Alpini e tedeschi sul Don, Gino Rossato, Valdagno 1991, pp. 89-92.

[18] Costantino De Franceschi, Giorgio de Vecchi e Fabio Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (Ussme), Roma 1993 (1a edizione 1977), pp. 468-470; Antonello Biagini e Fernando Frattolillo (a cura di), Diario storico del Comando supremo, Ussme, Roma 1986-2002, Volume IX, Tomo I, pp. 330 e 345.

[19] Ivi, Tomo I, p. 324.

[20] Nuto Revelli, Mai tardi. Diario di un alpino in Russia, Einaudi, Torino 2001 (1a edizione 1946), p. 189.

[21] A. Biagini e F. Frattolillo (a cura di), Diario storico del Comando supremo, cit., Volume IX, Tomo I, pp. 414 e 424.

[22] C. De Franceschi, G. de Vecchi e F. Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo, cit., p. 472.

[23] Frederick William Deakin, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, Einaudi, Torino 1990, Volume I, pp. 292-294.

[24] A. Biagini e F. Frattolillo (a cura di), Diario storico del Comando supremo, cit., Volume IX, Tomo I, pp. 656, 686, 694, 727.

[25] Ivi, Tomo I, pp. 686, 704, 716, 727, 748; Aussme, N/6, busta 1126, Diario storico del IX Battaglione misto genio per le trasmissioni, 10 marzo 1943.

[26] A. Biagini e F. Frattolillo (a cura di), Diario storico del Comando supremo, cit., Volume IX, Tomo I, pp. 592, 602, 790.

[27] Francesco Valori, Gli Italiani in Russia. La campagna dello Csir e dell’Armir, Bietti, Milano 1967, p. 399; Piero Fortuna e Raffaello Uboldi, Il tragico Don. Cronache della campagna italiana in Russia (1941-1943), Mondadori, Milano 1980, p. 445.

[28] Aussme, N/8, busta 1551, fascicolo 5/5: lettera dell’1 marzo 1943 del generale Italo Giglio al generale Ezio Rosi.

[29] Acs, Min, Dgps, Divisione Affari generale e riservati (Dagr), Categoria A/5 (1943), busta 8, fascicolo 49: Notizie d’oltre frontiera, il commissario per i Servizi di Polizia di frontiera della IV Zona al Ministero dell’Interno, Divisione Polizia di frontiera e trasporti, 19 marzo 1943.

[30] Aussme, H/1, busta 29, fascicolo 9: Promemoria per l’eccellenza [Antonio] Sorice, 20 febbraio 1943.

[31] J. Förster, Il ruolo dell’8ª Armata italiana dal punto di vista tedesco, cit., p. 242, nota 45.

[32] A. Biagini e F. Frattolillo (a cura di), Diario storico del Comando supremo, cit., Volume IX, Tomo I, pp. 769 e 813.

[33] Ivi, Tomo I, pp. 647 e 677.

[34] Aussme, M/3, busta 20, fascicolo 7: Promemoria per il sottocapo di S.[tato] M.[aggiore] per le operazioni, firmato generale Orlando Granati, 22 aprile 1943.

[35] Vedi T. Schlemmer, Invasori, non vittime, cit., pp. 141-143, 150-151.

[36] Acs, Minculpop, Gabinetto, busta 137, fascicolo 857: telegramma di Gaetano Polverelli alla Regia Ambasciata a Berlino, 17 aprile 1943.

[37] Nuto Revelli, Mai tardi, cit. pp. 195 e 202-203.

[38] P. Fortuna e R. Uboldi, Il tragico Don, cit., pp. 447-448.

[39] Vedi l’opuscolo La Patria vi saluta [1943], in Archivio di Stato di Terni, Fondo «Gino Papuli», busta 48, fascicolo 152.

[40] Acs, Min, Dgps, Dpp, fascicoli per materia, busta 215, fascicolo 2: nota fiduciaria datata Roma, 12 gennaio 1943.

[41] Acs, Min, Dgps, Dagr, Categoria A/5G, busta 30, fascicolo 12: lettera del 28 gennaio 1943 di Ivo Fontanelli, LX Autogruppo pesante.

[42] Testimonianza di Nardino Carestini, Raggruppamento camicie nere «23 marzo», in Giuseppe Piergentili (a cura di), La voce dei cristalli. Fronte russo 1941-43, Herald, Roma 2009, p. 126.

[43] Acs, Min, Dgps, Dagr, Categoria A/5G, busta 30, fascicolo 12: lettera del 6 marzo 1943 di Orvieto Arzilli, 90° Reggimento fanteria.

[44] Enzo Collotti, I tedeschi, in Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 81.

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